L’avvocato Cristiano Girardello presenta una proposta legislativa alternativa al Decreto Tajani, puntando sul ripopolamento, la giustizia intergenerazionale e la tutela dei diritti originari
Nel pieno del turbinio provocato dal Decreto-Legge n. 36/2025 — noto come Decreto Tajani, o Decreto della Vergogna —, l’avvocato italo-brasiliano Cristiano Girardello, editorialista della Rivista Insieme e collaboratore diretto di parlamentari al Senato italiano, presenta una proposta alternativa di riforma della cittadinanza italiana, volta a superare le impasse giuridiche, sociali e politiche aggravate dal testo attualmente in discussione in Parlamento.
Intitolata “Progetto Girardello”, la proposta delinea, secondo l’autore, una legge giusta, tecnicamente solida e in sintonia con le aspirazioni della società italiana — sia all’interno che all’esterno del territorio nazionale. Muovendo da una critica severa al decreto in vigore, ritenuto incostituzionale, antidemocratico e scollegato dalla realtà storica dell’Italia come Paese di emigrazione, Girardello difende un modello di cittadinanza che combini ius sanguinis, ius soli e ius scholae, con meccanismi di integrazione e rispetto dei diritti acquisiti.
«Il legislatore ideale non può ignorare la volontà popolare, né violare i principi fondanti dello Stato di Diritto», afferma il giurista, che ha collaborato alla stesura di numerosi emendamenti al cosiddetto Decreto Tajani, presentati da senatori di diversi schieramenti. Il suo testo, pubblicato nel numero speciale di Insieme dedicato al tema, articola una serie di linee guida che, secondo l’autore, sarebbero in grado di pacificare la società italiana e rafforzare le istituzioni.
Tra i punti cardine della proposta si evidenziano:
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il riconoscimento dei figli di immigrati nati in Italia, tramite criteri di comprovata integrazione culturale;
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il mantenimento dello ius sanguinis senza limiti generazionali, purché vi sia dimostrazione di un legame effettivo con l’Italia;
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l’introduzione di una finestra temporale di 24 mesi affinché i discendenti possano far valere i propri diritti secondo le norme precedenti;
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e nuovi meccanismi di perdita e riacquisizione della cittadinanza, basati su parametri oggettivi e umanitari, come la residenza legale in Italia.
Girardello propone inoltre l’uso della cittadinanza come strumento di politica pubblica per ripopolare comuni spopolati e promuovere la reintegrazione culturale degli oriundi che oggi si sentono esclusi o ignorati dalle istituzioni italiane. La proposta prevede anche un esame nazionale, preferibilmente online, per misurare conoscenze linguistiche, storiche e civiche, bilanciando le legittime esigenze dello Stato con la realtà degli italiani nel mondo.
Con un linguaggio tecnico ma sensibile al dibattito pubblico, l’articolo di Girardello rappresenta un raro tentativo di costruire consenso su un tema polarizzante e ad alto impatto identitario. In contrasto con la “mostruosità giuridica” che, a suo dire, caratterizza il Decreto Tajani, il giurista propone una via che riconcili giustizia sociale, responsabilità costituzionale e sostenibilità politica.
«Non si possono correggere ingiustizie con atti illeciti», ammonisce l’avvocato, che prevede un futuro di forte contenzioso giudiziario se il Parlamento non correggerà gli errori fondamentali del decreto in vigore. Di seguito, il testo integrale del “Progetto Girardello”.
Progetto Girardello: come sarebbe la mia proposta di legge, se fossi un legislatore
Spetta al legislatore, nella sua importante funzione democratica, ascoltare e percepire la società prima di presentare una proposta di legge. Inoltre, è imprescindibile che, nel rispetto della tecnica legislativa, vengano presentati progetti che rispettino non solo il processo legislativo, ma anche contenuti materiali fondanti della democrazia stessa, come la separazione dei poteri e i diritti fondamentali.
Il Decreto-Legge n. 36/2025 manca totalmente di rispettare qualsiasi delle questioni sopra menzionate: non raggiunge alcun denominatore sociale comune, poiché si preoccupa esclusivamente di soddisfare le esigenze dell’Amministrazione Pubblica italiana e nient’altro; adotta una via legislativa impropria per la sua trattazione, mancando uno dei requisiti essenziali (l’urgenza); viola – e mette in grave difficoltà – la separazione dei poteri, poiché invalida per via legislativa tutto ciò che i tribunali hanno stabilito da oltre cento anni e, cosa ancor più grave, non rispetta principi e diritti che sono alla base stessa dell’idea di democrazia, come i diritti acquisiti (meglio dire, originari), l’irretroattività, la sicurezza giuridica, tra altri istituti che sorreggono gli Stati democratici moderni.
Ho già avuto occasione di esprimermi su Insieme affermando che l’era dei grandi politici è finita. Sono passati i tempi in cui, nonostante le differenze, grandi figure politiche erano in grado di unire i dissidenti per il bene veramente comune. Ovviamente, non si tratta di un compito semplice: tutt’altro. Occorre molto coraggio e maturità, oltre a una straordinaria capacità di negoziazione. Una nuova legge su una materia delicata è uno dei compiti più impegnativi della democrazia.
Se i politici attuali ascoltassero la società e avessero il senso di responsabilità degli antichi, inizierebbero col dare ascolto all’intera società italiana, il che ci include in modo evidente. Non ho dubbi che l’Italia abbia bisogno di una nuova legge sulla cittadinanza. Solo persone accecate dalla passione non hanno il coraggio di ammetterlo. Tuttavia, una nuova legge deve essere in sintonia con le aspirazioni della società, guardare al futuro, non lasciarsi sedurre da necessità imminenti e meramente pratiche e, soprattutto, pacificare la società e le istituzioni. Le proposte di Forza Italia sono disastrose al riguardo, poiché ignorano una delle questioni più serie in materia (il tempo di naturalizzazione dei figli degli immigrati) e, per quanto riguarda lo ius sanguinis, mettono il sistema giudiziario del Paese – già sotto pressione per l’altissimo numero di richieste di cittadinanza provenienti in particolare dagli italo-brasiliani – al centro della tempesta.
Proviamo ora a delineare un disegno di legge che possa pacificare, almeno parzialmente, la società italiana, e che non metta in cattiva luce la magistratura. Le ispirazioni provengono, quasi esclusivamente, da ciò che la società esprime attraverso la sfera pubblica rappresentata dai media, inclusi i social network, dai giuristi e dai formatori di opinione.
In modo molto sintetico, possiamo elencare:
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L’Italia soffre di un calo demografico che, come previsto, si aggraverà notevolmente nei prossimi anni; inoltre, continua a essere un paese di diaspora per quanto riguarda i giovani e le persone in età lavorativa;
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Molti figli di immigrati, nati in Italia, dovrebbero avere diritto alla cittadinanza per il solo fatto di essere nati nel Paese (ius soli) o, almeno, avere diritto a un processo di naturalizzazione abbreviato e semplificato;
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L’Italia ha un’enorme quantità di cittadini residenti all’estero – o di persone in condizione di essere dichiarate tali –, per la maggior parte con buon potere d’acquisto e appartenenti alla manodopera qualificata;
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Questa grande massa di italo-discendenti, sebbene sia di interesse indiscutibile per l’esercizio di una sorta di soft power dell’Italia in quasi tutto il mondo, non è interessata o non ha incentivi a ritornare sul territorio e stabilirvisi; inoltre, molti sono culturalmente distanti dall’Italia (almeno per quanto riguarda la lingua e l’educazione civica), il che genera importanti attriti in una parte della popolazione residente, specialmente nel “reparto operativo” dell’Amministrazione Pubblica, che rigetta un lavoro supplementare per cittadini che considera “fantasmi”;
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A ciò si aggiunge il fatto che la cittadinanza italiana appare banalizzata nelle campagne di marketing delle aziende che si occupano del tema e nell’esperienza di persone che, di fatto, strumentalizzano la cittadinanza per ottenere uno status privilegiato, senza presumibilmente avere alcun legame con il territorio o con qualche elemento più concreto del concetto di “popolo italiano”;
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Le leggi precedenti, regolarmente in vigore al loro tempo e ordinariamente confermate dai Tribunali, anche quelli supremi, fanno sì che le persone nate all’estero, purché figlie di italiani o italiane, anche se mai registrate, siano, per il solo fatto della nascita, anch’esse italiane, dovendo solo presentare le relative domande accompagnate dalla documentazione comprovante, affinché vengano dichiarate cittadine e iscritte nei registri competenti (stato civile e anagrafe).
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Se fossi legislatore, partirei dall’innegoziabilità dei punti 1 e 6. Il punto 1 rappresenta una verità di ordine demografico e basta. Non si può negare il triste futuro dell’Italia per quanto riguarda la diminuzione della popolazione residente e l’equilibrio attuariale. È quindi evidente che una nuova legge sulla cittadinanza debba considerare la necessità di ripopolamento, migliori tassi di natalità e un equilibrio demografico più stabile tra contribuenti e pensionati – ricordando che una legge sulla cittadinanza, di per sé, determinerebbe solo il profilo dei potenziali cittadini del futuro, senza risolvere da sola le questioni sopra indicate, le quali dipendono da altre modifiche legislative e da politiche settoriali.
Il punto 6 – totalmente ignorato dal DL n. 36/2025 –, riguarda invece la stabilità democratica, poiché tocca direttamente la separazione dei poteri, il rispetto attento delle decisioni del potere giudiziario e l’allineamento con i principi fondanti dello Stato di Diritto. Si tratta di un punto evidentemente non negoziabile, che il legislatore deve tenere in considerazione.
Gli altri punti, pur non essendo – a mio avviso – innegoziabili, toccano un importante elemento psicosociale: il senso di giustizia dei cittadini. Non soddisfarlo, neanche parzialmente, significa alimentare nella popolazione un crescente discredito verso le istituzioni e, in ultima analisi, verso la stessa idea di giustizia. È in questo senso che un disegno di legge sulla cittadinanza dovrebbe, in maniera altamente raccomandabile, introdurre meccanismi in grado di correggere distorsioni che, nell’opinione pubblica, producono ingiustizie. Trattare dunque la questione dei figli degli immigrati, oltre a creare meccanismi per l’esclusione di coloro che, in effetti, non dimostrano alcun legame con la patria, senza intaccare i principi giuridici fondamentali della democrazia, è la vera sfida.
Sul piano politico, il primo obiettivo trova il suo tallone d’Achille nell’irriconciliabile divisione del Parlamento sull’attribuzione della cittadinanza ai figli degli immigrati. Il secondo obiettivo – usato in maniera populista per alimentare cinicamente i dibattiti sul primo – trova nella pressione sempre più forte da parte dell’Amministrazione Pubblica il suo muro invalicabile. Al centro di questi conflitti ha fallito – e continua a fallire in modo drammatico – il Parlamento: basti guardare all’incapacità di accogliere finalmente le istanze dei “figli d’Italia” e, per quanto ci riguarda, al mostro giuridico generato dal Ministro Antonio Tajani lo scorso 27 marzo 2025.
Introdurre lo ius soli – anche in forma temperata –, mantenere lo ius sanguinis senza limiti generazionali – ma con meccanismi chiari che dimostrino un legame effettivo con la patria –, creare nuovi meccanismi di perdita della cittadinanza, mitigati dalla possibilità del riacquisto, e infine elaborare un meccanismo sanatorio generale per i milioni di cittadini iure sanguinis attualmente accumulati: queste dovrebbero essere le attività concrete sulle quali i legislatori dovrebbero concentrarsi per proporre una modifica legislativa che sia legittima, costituzionalmente adeguata e, soprattutto, in sintonia con ciò che la società desidera come denominatore comune. Questo sarebbe il senso della mia proposta, se fossi io il legislatore.
Nell’art. 1 della Legge 91/1992, io – come fa la corrispondente legge portoghese – inizierei col distinguere i cittadini per nascita in base alla loro origine – e introdurrei la tanto auspicata ipotesi dello ius soli per i figli di genitori immigrati che dimostrassero integrazione nella comunità nazionale. Ecco dunque il nuovo testo proposto:
È cittadino per nascita:
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il figlio di padre o madre cittadini, se almeno uno dei genitori è nato nel territorio italiano;
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il figlio di padre o madre cittadini nati all’estero, purché almeno uno dei genitori sia iscritto nel registro civile italiano;
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il figlio di padre o madre di origine italiana, nati entrambi i genitori all’estero e non iscritti nel registro civile italiano, che, in qualsiasi momento, dopo aver raggiunto la maggiore età civile, dichiari la volontà di essere iscritto nel registro civile italiano e dimostri di possedere sufficienti conoscenze linguistiche, storiche e culturali per attestare un legame effettivo con la comunità nazionale;
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il figlio di genitori stranieri, nato nel territorio italiano, purché i genitori dimostrino una residenza legale e ininterrotta nel territorio della Repubblica per almeno quattro anni, e possiedano conoscenze linguistiche, storiche e culturali sufficienti per dimostrare l’integrazione nella comunità nazionale;
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il figlio di ignoti trovato nel territorio della Repubblica, nel caso in cui non sia comprovato il possesso di altra cittadinanza (antico punto 2, invariato).
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Ovviamente, il nuovo dispositivo richiederebbe almeno tre integrazioni:
(i) la previsione di un test di conoscenze linguistiche e storico-culturali per comprovare l’integrazione dei genitori stranieri i cui figli siano nati in Italia o, secondo il caso, il legame dell’italo-discendente non registrato entro il raggiungimento della maggiore età civile e distanziato dal proprio ascendente nato in Italia oltre la prima generazione (genitori);
(ii) presunzioni legali per entrambi i casi, nel senso che, nel primo, sarebbe sufficiente un periodo minimo di residenza legale e ininterrotta dei genitori o l’esistenza di un figlio precedentemente già registrato come italiano, e nel secondo, un periodo minimo di residenza legale e ininterrotta in Italia per poter presentare la domanda;
infine, (iii) la specificazione di un termine per la presentazione al registro dei figli nati all’estero da genitori italiani, a loro volta già registrati. Ecco la proposta:
2. La prova richiesta nelle lettere ‘c’ e ‘d’ del primo paragrafo del presente articolo sarà effettuata tramite il superamento di un test, disciplinato dal Ministero competente, attraverso il quale saranno valutate, almeno annualmente e preferibilmente per via telematica, tutte le conoscenze necessarie (linguistiche, storiche e culturali) per dimostrare il legame o l’integrazione, secondo i casi, con la comunità nazionale.
3. Sono esonerati dal test di conoscenze:
a) tutti coloro che, nel caso della lettera ‘c’, stabiliscano la residenza nel territorio italiano e vi risiedano, legalmente e ininterrottamente, per almeno due anni;
b) tutti coloro che, nel caso della lettera ‘d’, dimostrino di risiedere, legalmente e ininterrottamente, nel territorio della Repubblica, per almeno dieci anni, o che, in alternativa, abbiano già un figlio registrato come cittadino italiano.
4. Nei casi previsti dalle lettere ‘a’ e ‘b’, se il figlio è nato all’estero, luogo nel quale il padre o la madre italiani mantengono la loro residenza, egli dovrà essere presentato alla registrazione presso la competente rappresentanza consolare entro il raggiungimento della maggiore età civile. Raggiunta tale età, sarà lo stesso figlio, secondo quanto previsto alla lettera ‘c’, a dover richiedere la propria iscrizione in Italia.
Ritengo che le ansie di settori importanti dell’Italia vadano oltre un semplice test di conoscenze linguistiche per comprovare integrazione o legame con l’Italia – ecco perché l’idea della creazione di una prova unica in grado di valutare non solo le competenze linguistiche, ma anche le conoscenze storiche e culturali. Ovviamente, sarebbe auspicabile che la legge prevedesse una frequenza minima per l’effettuazione della prova e che essa fosse somministrata preferibilmente per via telematica, così da evitare un controllo potestativo da parte dello Stato sui tempi minimi per lo svolgimento dei test e garantire un’ampia partecipazione, indipendentemente dagli spostamenti fisici degli interessati.
Per quanto riguarda i termini di residenza applicabili alle presunzioni legali, il legislatore sarebbe libero di decidere; nel caso dei genitori stranieri di bambini nati in Italia, ho indicato dieci anni perché tale termine è analogo a quello previsto per la naturalizzazione dei cittadini extracomunitari – potrebbe anche essere di soli cinque anni, a seconda dell’esito del prossimo referendum; nel caso degli italo-discendenti, ho scelto liberamente due anni di residenza – in conformità con quanto già previsto dallo stesso DL n. 36/2025.
Inoltre, si superano le questioni legate ai limiti generazionali: i cittadini italiani, indipendentemente dalla loro origine (nati sul territorio o all’estero), sarebbero consapevoli dell’obbligo di presentare i propri figli nati all’estero alla registrazione quando ancora minorenni, pena il dover affrontare, una volta raggiunta la maggiore età, un procedimento di riconoscimento della cittadinanza che ora richiederebbe la prova delle conoscenze o della residenza in Italia. In questo modo, tutti i figli di italiani sarebbero trattati allo stesso modo, indipendentemente dall’origine dei genitori o dalla distanza generazionale con l’ascendente nato in Italia. In altre parole, se il minore non viene registrato entro il raggiungimento della maggiore età civile, sarà considerato un “oriundo”, in posizione di parità con tutti gli altri, indipendentemente dal grado di parentela con l’ascendente italiano.
In altri termini: nei casi previsti alle lettere ‘a’ e ‘b’ basterebbe presentare i figli minorenni alla registrazione; solo nel caso previsto alla lettera ‘c’ si seguirebbero i procedimenti di riconoscimento della cittadinanza – ora rivolti a un nuovo pubblico (figli non presentati da minorenni), soggetti ai nuovi requisiti così tanto desiderati dalla società italiana per gli oriundi (prova delle conoscenze o residenza in Italia).
Questa proposta servirebbe anche come stimolo per lo sviluppo di progetti di ripopolamento dei comuni italiani: gli oriundi che non volessero o non potessero sostenere il test delle conoscenze dovrebbero stabilire la propria residenza, in modo ininterrotto, in Italia per almeno due anni, prima di poter avviare la procedura di riconoscimento. In tal modo, si garantirebbe che l’oriundo viva, almeno per quattro anni o più nel territorio italiano, sommando il periodo necessario per l’acquisizione del diritto ad avviare la procedura e il tempo di decisione del processo amministrativo di riconoscimento. Va sottolineata, a tal proposito, la necessità di modifiche legislative in altre leggi e regolamenti, al fine di permettere l’insediamento degli oriundi sulla base di un regime speciale di soggiorno, che consenta loro di godere di tutti i diritti di qualsiasi cittadino (con la naturale eccezione dei diritti politici attivi e passivi), fino a quando non siano ufficialmente dichiarati cittadini.
Rimane, tuttavia, la domanda che tutti si pongono: come affrontare la situazione dei milioni di italo-discendenti che, secondo le leggi finora vigenti, sono nati italiani? Non vi è altra soluzione giuridicamente possibile se non quella di creare ipotesi che producano effetti solo per il futuro – ossia, una strategia diametralmente opposta alla mostruosità giuridica generata dal Ministero degli Affari Esteri lo scorso marzo.
Questa strategia potrebbe concretizzarsi attraverso due misure:
(i) la creazione di una sorta di vacatio, un periodo entro il quale tutti gli interessati dovrebbero attivarsi, pena l’applicazione nei loro confronti delle nuove disposizioni legali;
(ii) la creazione di nuove ipotesi di perdita della cittadinanza (applicabili, eventualmente, anche subito dopo la pubblicazione della legge).
Nel primo caso, l’idea sarebbe quella di concedere un periodo di tempo, a partire dalla pubblicazione della legge, affinché tutti gli italiani nati all’estero possano richiedere, dinanzi allo Stato, il proprio riconoscimento ancora secondo la normativa previgente.
Quando si parla di termini, il legislatore è nuovamente libero – tuttavia, per ragioni di giustizia, deve essere ragionevole. Qui può adottare presunzioni oppure semplicemente definire un termine perentorio e arbitrario per l’avvio della procedura.
Personalmente, non ho dubbi che la cittadinanza italiana non possa restare un diritto esercitabile in qualsiasi momento – anzi, questo è stato l’errore dei legislatori precedenti –, poiché è proprio la limitazione temporale (e non generazionale) la strategia necessaria per evitare che la cittadinanza diventi soltanto una riserva dei suoi beneficiari (prendendo in prestito un concetto sviluppato da Daniel Taddone). Tuttavia, i valori del giusto e dell’illecito non sempre procedono insieme, anche se sono strettamente connessi. In effetti, non sembra giusto che le persone possano rimanere indefinitamente inerti rispetto all’esercizio della propria cittadinanza; tuttavia, al momento, non è illecito farlo. Il problema principale del Decreto Tajani è stato quello di cercare di correggere questa ingiustizia con un atto chiaramente illecito (nel senso di antigiuridico, poiché manifestamente incostituzionale). Anche se ciò che è giusto può trovarsi al di là del giuridico, ciò che è illecito sarà sempre ingiusto; per questa ragione, non si possono correggere ingiustizie con atti illeciti. Così, il Decreto fallisce miseramente nel tentativo di annullare un diritto originario e derivante da leggi che, al loro tempo, erano in pieno vigore, oltre ad essere state confermate e persino ampliate in via interpretativa dai tribunali italiani, in particolare quelli di giurisdizione superiore. Nella sua forma attuale, il Decreto sarà inevitabilmente dichiarato incostituzionale.
Ma quale sarebbe un termine equo affinché coloro che sono rimasti inerti, dopo la pubblicazione della nuova legge, possano esercitare il proprio diritto alla cittadinanza, pena una rinuncia (presunta)? Possiamo pensare a diversi criteri. Forse il più giusto sarebbe il tempo necessario affinché la fila più lunga tra tutti i Consolati del mondo venga azzerata. Prendendo il Consolato di San Paolo come esempio migliore, la legge potrebbe prevedere, ad esempio, dieci anni. Un altro parametro potrebbe essere il tempo necessario alla conclusione delle pratiche – oggi, 735 giorni; secondo l’attuale proposta del Governo, 48 mesi. L’idea è che tutti i nati italiani all’estero avrebbero questo tempo per presentare le proprie domande (o almeno dimostrare di aver cercato di farlo) e, così facendo, a loro si applicherebbero le regole precedenti alla pubblicazione della legge. Superato tale termine, si applicherebbero le nuove norme: ovvero, per la stragrande maggioranza degli interessati, superamento del test linguistico e storico-culturale oppure residenza legale e ininterrotta in Italia per un periodo minimo (come visto, io ho suggerito due anni di residenza).
Se la situazione viene ritenuta “urgente” per l’Amministrazione Pubblica, sarebbe sufficiente ridurre questo termine. Sebbene termini troppo brevi risultino ingiusti per la loro irragionevolezza, non credo che sarebbero incostituzionali. Pesando tutte queste questioni, ritengo che il termine di 24 mesi o 735 giorni sarebbe il più equilibrato. Dunque, la mia proposta è che, dopo la pubblicazione della legge, venga fissato un termine perentorio di 24 mesi affinché tutti gli oriundi, nel mondo, presentino le proprie richieste o almeno manifestino inequivocabilmente il proprio interesse (ovviamente, in questo caso, per comprovare l’interesse ad agire in sede giudiziaria), prima che a loro si applichi la nuova normativa – cioè, la lettera ‘c’ dell’art. 1 o il comma 3, lettera ‘a’, dello stesso articolo, come ho proposto più sopra.
Nel secondo caso, con effetti rivolti al futuro, ritengo che il legislatore resti libero di agire, ma ancora una volta deve essere ragionevole. Sinceramente, non credo che l’attuale proposta del Governo sia così irragionevole – anzi, forse è l’unica a presentare tale caratteristica: quella di presumere la perdita della cittadinanza nel caso in cui, entro venticinque anni, il cittadino non dimostri alcuna attività nei confronti dello Stato. L’attuale proposta fallisce, tuttavia, nel non dare maggiore concretezza all’ipotesi – e nel non bilanciare i suoi effetti, in modo esplicito, con l’istituto del riacquisto, come invece fanno le legislazioni più equilibrate.
Per questo motivo, io proporrei che la perdita della cittadinanza possa essere dichiarata in qualsiasi momento, accertate le condizioni, ma con la possibilità di riacquisto tramite la dimostrazione di una residenza legale e ininterrotta sul territorio per almeno due anni, anch’essa possibile in qualsiasi momento e senza dover rispettare limiti di ordine generazionale.
La tecnica legislativa sarebbe quella di introdurre una nuova lettera all’art. 12 (nuova ipotesi di perdita), precisando che il riacquisto, indipendentemente dai limiti generazionali, avverrebbe tramite la fissazione della residenza nel territorio e la permanenza, legale e ininterrotta, per il periodo specificato. Vediamo:
ART. 12
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(inalterato)
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(inalterato)
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I cittadini sempre residenti all’estero e gli espatriati perdono la cittadinanza italiana se, cumulativamente,
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• sono in possesso di un’altra cittadinanza,
• non possiedono un documento di identità italiano in corso di validità
• e risultano dichiarati in luogo incerto e sconosciuto dall’autorità amministrativa competente, potendo riacquistarla se soddisfatte le condizioni previste all’art. 4, lettera ‘c’.
ART. 4
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Lo straniero o l’apolide, i cui ascendenti in linea retta siano stati cittadini italiani per nascita, diventa cittadino:
c) se, al raggiungimento della maggiore età, risiede legalmente e ininterrottamente per almeno due anni nel territorio della Repubblica e dichiara, in qualsiasi momento, la volontà di acquisire la cittadinanza italiana.
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È importante sottolineare la necessità di un doppio regime normativo:
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uno rivolto a coloro che sono nati cittadini italiani, ma che sono rimasti inerti dopo la pubblicazione della legge;
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un altro per coloro che, dopo la pubblicazione della legge, abbiano perso la cittadinanza.
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Nel primo caso, la condizione di cittadino non sarebbe mai stata persa – si passerebbe semplicemente a richiedere, secondo la nuova normativa, o la presentazione della richiesta accompagnata dalla prova delle conoscenze (art. 1, lettera ‘c’) o la fissazione della residenza in Italia per due anni (art. 1, comma 3, lettera ‘a’).
Nel secondo caso, cioè, se dichiarata la perdita della cittadinanza (il che presuppone la registrazione anagrafica del cittadino presso l’ufficio competente), solo la fissazione della residenza e il soggiorno ininterrotto per due anni (art. 12, comma 3 combinato con l’art. 4, comma 1, lettera ‘c’) costituisce un’ipotesi di riacquisto.
Infine, per quanto riguarda la normativa rivolta ai figli degli immigrati, modifiche dello stesso art. 4 potrebbero sostituire la disciplina attuale – che sarà oggetto di referendum – con il tanto auspicato ius scholae, in una versione attenuata dalla necessità di comprovare l’integrazione nella comunità nazionale da parte dei genitori. Ecco la proposta. Si noti che, secondo la mia proposta, l’attuale normativa resterebbe in vigore come ipotesi sussidiaria, cioè soltanto per i figli di immigrati i cui genitori non potessero (o non volessero) dimostrare integrazione con la comunità italiana. Vediamo la proposta:
ART. 4
2. I minori stranieri che, pur non essendo nati nel territorio italiano, abbiano compiuto quattordici anni di età e abbiano frequentato, nel territorio della Repubblica, almeno cinque anni consecutivi di studio, secondo l’ordinamento scolastico nazionale regolare, possono richiedere la cittadinanza, attraverso la necessaria rappresentanza dei genitori o dei tutori legali, i quali, per l’avvio della procedura competente, dovranno dimostrare residenza legale e ininterrotta nel territorio per almeno cinque anni, oltre al possesso di conoscenze linguistiche, storiche e culturali che comprovino un’effettiva integrazione con la comunità nazionale.
3. I minori stranieri che, pur non essendo nati in territorio italiano, possiedano i requisiti indicati nel comma precedente, ma i cui genitori non siano in grado di soddisfare i propri requisiti, possono richiedere la cittadinanza dichiarando la volontà di diventare cittadini entro un termine improrogabile di un anno dal raggiungimento della maggiore età civile.
Per concludere questo articolo speciale, occorre fare una precisazione e una previsione.
La precisazione è che, per scriverlo, mi sono calato nei panni di un legislatore ideale, ovvero capace di mettere da parte i propri interessi, pregiudizi e opinioni personali sull’argomento, cercando di sintetizzare nel testo quella eterea “volontà popolare”, ma sempre rispettando la tecnica, al fine di evitare, ovviamente, la giustizializzazione e la futura dichiarazione di incostituzionalità.
La previsione – qualcosa in cui, come comprovato su Insieme, ho un’intuizione quasi soprannaturale – è che, purtroppo, il Decreto Tajani sarà approvato con i principali dei suoi difetti, il che porterà a un’esplosione di contenziosi ancora più grave nei tribunali.
La volontà di eliminarci – che, contrariamente a quanto affermano molti, non ha colore politico, né a destra né a sinistra – non lascia spazio affinché l’inconstituzionalità principale (la retroattività degli effetti legali che promuovono una vera e propria cancellazione di diritti originari e quindi già acquisiti) venga eliminata dal testo. Anche se, nei dibattiti parlamentari, si riuscisse a ottenere qualche emendamento favorevole, non credo che toccherà questo punto: così, in maniera atecnica, antigiuridica e incostituzionale, credo che sarà mantenuta la regola (che cadrà nei Tribunali) secondo la quale “sono considerati italiani solo i soggetti previsti nelle eccezioni sottostanti”, indipendentemente dal fatto che la cittadinanza – come deciso in modo fermo e ripetuto dalla magistratura – sia un diritto originario, stabile nel tempo, imprescrittibile e fondamentale. Attendiamo!