Avvocato Bonato critica limiti retroattivi e difende la cittadinanza come diritto originario in una storica arringa davanti alla Corte Costituzionale

Nella quarta arringa della storica udienza presso la Corte Costituzionale italiana, che esamina le questioni di legittimità costituzionale della nuova Legge sulla Cittadinanza sollevate dai tribunali regionali di Bologna, Roma, Firenze e Milano, l’avvocato Giovanni Bonato ha sostenuto la tesi secondo cui la cittadinanza è un diritto originario e sostanziale, che appartiene ai discendenti di italiani fin dalla nascita, indipendentemente dal riconoscimento formale da parte dello Stato.

L’avvocato, membro dell’Agis – Associazione Giuristi Iure Sanguinis e che, insieme all’Auci – Avvocati Uniti per la Cittadinanza Italiana, si impegna nella difesa dei discendenti di italiani, ritiene che “i figli possono avere tutte le colpe del mondo, tranne quella di essere nati. Così è anche per i discendenti di italiani. Non possono essere penalizzati per essere nati all’estero”.

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Bonato ha iniziato il suo intervento riprendendo il concetto di “titolarità sostanziale e formale” dello stato di figlio, elaborato dal giurista Cesare Massimo Bianca, per applicarlo alla condizione di cittadino: secondo lui, tutti i discendenti di italiani possiedono fin dalla nascita la titolarità sostanziale della cittadinanza, che conferisce loro gli stessi diritti, ovunque siano nati.

Nel confutare le tesi che propongono l’introduzione di limiti retroattivi al riconoscimento della cittadinanza, Bonato ha sostenuto che una simile misura provocherebbe una “denazionalizzazione di massa”, generando un effetto giuridico perverso, ingiusto e palesemente incostituzionale, in violazione dei principi di uguaglianza, ragionevolezza, proporzionalità e affidamento legittimo. “Sarebbe una revoca generalizzata, una manipolazione contraria all’art. 22 della Costituzione, che vieta la perdita della cittadinanza per motivi politici”, ha dichiarato.

Bonato ha inoltre sottolineato che la perdita automatica e retroattiva della cittadinanza viola il diritto dell’Unione Europea, in particolare l’articolo 20 del Trattato sul Funzionamento dell’UE, che vieta agli Stati membri di imporre la perdita della cittadinanza senza concedere agli interessati un termine ragionevole per far valere le proprie ragioni, citando recenti sentenze della Corte di Giustizia europea.

Infine, l’avvocato ha criticato il Decreto n. 36/25, convertito in legge n. 74/25, affermando che, nel prevedere restrizioni retroattive per i figli di italiani nati all’estero, riproduce la logica che alcuni tribunali tentano di legittimare attraverso i ricorsi in esame. Secondo Bonato, penalizzare i discendenti per il luogo di nascita equivale a far rivivere l’antica discriminazione contro i figli adulterini o incestuosi, ormai superata nel diritto di famiglia. “I figli possono avere tutte le colpe del mondo, tranne quella di essere nati. Così è anche per i discendenti degli italiani”, ha concluso.

L’udienza si è svolta nella mattinata del 24 giugno, con le aule della Corte gremite di avvocati e rappresentanti delle comunità di italo-discendenti di tutto il mondo — soprattutto dal Brasile e dall’Argentina — tra cui la Revista Insieme, unico organo di stampa presente.

A seguire, nella sua interezza, l’intervento di Giovanni Bonato:

“Buongiorno Illustre Presidente, Ecc.ma Corte, vorrei innanzitutto effettuare una premessa a livello di teoria generale e ritengo che, a questo proposito, possa essere utile riprendere la distinzione tra titolarità sostanziale e titolarità formale dello stato di figlio – elaborata dal Professor Cesare Massimo Bianca – ed applicarla allo stato di cittadino.

In materia di cittadinanza, la titolarità sostanziale dello stato di cittadino spetta, fin dalla nascita, a tutti coloro che sono discendenti da genitore italiano e attribuisce sempre i medesimi ed uguali diritti, indipendentemente dal luogo di nascita (in Italia o all’estero); ciò almeno fino al 28 marzo 2025.

Quello che, invece, può variare tra gli individui è unicamente l’aspetto della titolarità formale di detto status di cittadino, ossia la posizione formalmente e pubblicamente posseduta dello stato in questione.

Alla luce di questa premessa, la posizione del cittadino italiano, non ancora formalmente riconosciuto dallo Stato italiano, ci pare essere del tutto analoga a quella del figlio nato fuori dal matrimonio e non riconosciuto volontariamente dal proprio genitore (colui che veniva definito, prima della riforma della filiazione del 2012, “figlio naturale”).

Infatti, sia il figlio nato fuori dal matrimonio sia il cittadino – sebbene ancora non riconosciuti – possiedono il loro status anche prima dell’accertamento. Ed è proprio e unicamente la mancanza della titolarità formale della cittadinanza che ha spinto i ricorrenti dei processi principali a propore la domanda di mero accertamento del loro status.

Ciò detto, anche a me pare che le questioni sollevate siano totalmente infondate nel merito, come già illustrato nelle memorie difensive da noi prodotte. Diritto vivente delle Sezioni Unite della C. cass., sentenze 2009, 2016 e 2022.

Ma ciò che mi preme sottolineare riguarda l’inammissibilità delle questioni sollevate, in quanto tendenti ad ottenere da Codesta Corte una sentenza additiva, con la quale si vorrebbero aggiungere nuovi e retroattivi limiti alla trasmissione, che alcune ordinanze di rimessione individuano in due generazioni.

A ben vedere, al fine di dichiarare l’inamissibilità delle questioni sollevate sarebbe già sufficiente applicare il divieto di interferire in scelte discrezionali del Legislatore (previsto dall’art. 28 legge n. 87 del 1953). È chiaro, infatti, che spetta al Parlamento nella sua discrezionalità introdurre limiti generazionali e altri requisiti ai fini della trasmissione della cittadinanza, fermo comunque il rispetto dei principi costituzionali, tra cui in particolare quelli di irretroattività, uguaglianza, ragionevolezza e proporzionalità.

Tuttavia, considerando la normale retroattività delle sentenze di accoglimento, una pronuncia additiva di limiti generazionali alla trasmissione provocherebbe un’illegittima e automatica perdita della cittadinanza per un’indeterminata categoria di persone. Si verificherebbe, in altre parole, un fenomeno di privazione collettiva della cittadinanza, una vera e propria denazionalizzazione di massa; una revoca generalizzata.

Si produrrebbe, quindi, un effetto giuridico perverso, ingiusto e palesemente incostituzionale. Un effetto di natura manipolativa, che difetta non solo delle “rime obbligate”, ma anche delle “rime adeguate”. Un effetto certamente lesivo del principio del legittimo affidamento e del principio di uguaglianza, anche in pieno contrasto con l’art 22 della nostra Cost., che vieta la privazione della cittadinanza per motivi politici, come anche previsto da altre Costituzioni, tra cui quella spagnola (art. 11). Inoltre, questa privazione della cittadinanza sarebbe contraria all’orientamento unanime della giurisprudenza costituzionale e di legittimità, secondo cui:

la disciplina della perdita della cittadinanza non ammette nessun tipo di automatismo, potendo derivare solo da atto consapevole e volontario.

Ma non solo! si verificherebbe anche una chiara incompatibità con il diritto dell’Unione Europea, in particolare dell’art. 20 del Trattato sul Funzionamento dell’UE, poiché gli Stati membri non possono introdurre fattispecie di perdita automatica e a sorpresa, senza concedere  agli interessati un termine congruo per manifestarsi ai fini del mantenimento del proprio status. Come risulta dalla recente giurisprudenza della Corte di Giustizia, tra cui un’ultima sentenza del 2023 nei confronti della Danimarca.

Quindi, riprendendo il paragone tra filiazione e cittadinanza, in conseguenza di un’eventuale pronuncia additiva di limiti generazionali, coloro che possiedono solo la titolarità sostanziale dello status di cittadini sarebbero degradati a cittadini irriconoscibili da parte della nostra madre patria, come se fossero dei figli incestuosi (secondo la disciplina anteriore al 2012).

Ciò detto, vorrei concludere con un sintetico riferimento al Decreto n. 36/25, convertito con legge n. 74/25, al solo fine di dimostrare che tale recente intervento in materia di cittadinanza non può costituire una sorta di riprova della fondatezza delle censure elaborate dai remittenti.

L’aspetto più critico del decreto attiene alla sua portata retroattiva, nella parte in cui dispone che:

è considerato non avere mai acquistato la cittadinanza italiana chi è nato all’estero anche prima della data di entrata in vigore del presente articolo ed è in possesso di altra cittadinanza” (disposizione ora contenuta nell’art. 3-bis della legge n. 91-92). Vengono, comunque, fatte salve alcune situazioni specifiche, tra cui: i soggetti già riconosciuti; coloro che hanno un giudizio amministrativo o giurisdizionale in corso e proposto prima del 28 marzo 2025; coloro che hanno un ascendente di primo o secondo grado in possesso della sola cittadinanza italiana.

Ritroviamo, nel decreto, l’eco del limite delle due generazioni, che è evocato da alcuni giudici a quibus.

In questa direzione, notiamo che il Decreto crea un effetto sostanzialmente equivalente a quello al quale mirano le ordinanze di rimessione, differenziandosi da esse solo a livello temporale, essendo lo spartiacque il 28 marzo scorso.

Mentre i giudici a quibus cercano di ottenere da Codesta Corte l’introduzione di limiti retroattivi alla trasmissione in riferimento ai giudizi proposti anche prima del 28 marzo 25, il Decreto crea questi limiti per i processi instaurati dal 28 marzo 2025 in poi.

Difatti, nonostante il decreto utilizzi una formula lessicale apparentemente neutra ed innoqua e sebbene nella relazione governativa si parli di preclusione retroattiva all’acquisto, dobbiamo amaramente constatare che siamo in presenza di una formula lessicale totalmente ambigua, dietro la quale si nasconde evidentemente un grave imbarazzo del legislatore, che cerca di mascherare con delle parole la retroattività del meccanismo.

Dietro a questo stratagemma linguistico si cela un ingiusto e perverso fenomeno di privazione collettiva e generalizzata della cittadinanza, che va colpire retroattivamente e a loro insaputa un’intera categoria di persone.

Non a caso il costituzionalista Enrico Grosso di Torino ha parlato di vera e propria “truffa linguistica”, durante la sua recente audizione in Senato.

Per tale motivo, la soluzione normativa voluta dal decreto n. 36/25 solleva serissimi dubbi di legittimità costituzionale, come anche sostenuto da illustri studiosi. Lo stesso Presidente della Repubblica mi pare che abbia recentemente espresso delle perplessità sulla nuova disciplina della cittadinanza, in riferimento ai nati all’estero.

Certamente il nostro ordinamento costituzionale non ammette che  un atto a portata generale (si tratti di un decreto-legge convertito o di una sentenza additiva) abbia l’effetto di privare retroattivamente della cittadinanza un’intera categoria di soggetti già nati e che sono comunque sostanzialmente italiani.

In conclusione, vorrei fare un ultimo paragone tra filiazione e cittadinanza.

Dicevano il civilista francese Gérard Cornu e il civilista italiano Cesare Massimo Bianca che i figli possono avere tutte le colpe del mondo, tranne quella di essere nati; per tale motivo si è arrivati, nel corso degli ultimi decenni, ad eliminare praticamente tutte le ipotesi che impedivano il riconoscimento della filiazione fuori dal matrimonio (eliminando la categoria dei figli adulterni, degli figli illegittimi, anche di fatto dei figli incestuosi; oggi esistono solo i figli). Ciò perché le colpe dei padri, non possono ricadere sui figli e impedire a questi ultimi di essere riconosciuti.

Allo stesso modo, i discendenti di cittadini italiani possono avere tutte le colpe del mondo, tranne quella della scelta del luogo di nascita (in Italia o all’estero), trattandosi di un fatto involontario e del tutto incidentale per il titolare della cittadinanza. Non possiamo, quindi, penalizzare i discendenti, privandoli della loro cittadinanza, solo perché sono nati all’estero, soprattutto quando per oltre 200 anni è stato assolutamente prevalente il criterio dello ius sanguinis, che si fonda unicamente sulla discendenza da cittadino, considerando del tutto irrilevante il luogo della nascita. Tutto ciò era già previsto dall’art. 10 del Code Napoleon del 1804 (nella sua versione originaria), secondo cui: “è francese il figlio di cittadino, anche se nato all’estero”. Normativa francese di inizo ‘800 che ha ispirato tutta la disciplina italiana della cittadinanza, fin dalle legislazioni preunitarie.

Concludo, quindi per l’inammissibilità delle questioni sollevate nel presente giudizio o comunque per la loro manifesta infondatezza nel merito. Grazie.”