La Corte Costituzionale respinge i limiti alla cittadinanza per discendenza e delude le aspettative di modifica del modello iure sanguinis

I tribunali mettevano in discussione l’assenza di un legame effettivo con l’Italia; la Corte dichiara “inammissibile” la questione di incostituzionalità e conferma il diritto dei discendenti

L’attesa sentenza della Corte Costituzionale Italiana sulla cittadinanza iure sanguinis — per diritto di sangue — è stata pubblicata mercoledì 31 luglio 2025 a Roma. Con la Sentenza n. 142/2025, la Corte ha respinto le richieste di limitare la cittadinanza per discendenza, dichiarando inammissibili o infondate le questioni sollevate da quattro tribunali di primo grado italiani.

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La decisione ha riunito i ricorsi promossi principalmente dal Tribunale Ordinario di Roma, ma ha integrato anche argomentazioni e quesiti analoghi sollevati da altri tribunali italiani, come quelli di Bologna, Milano e Firenze. Tali tribunali mettevano in dubbio la costituzionalità dell’articolo 1 della Legge n. 91/1992, che riconosce come cittadino italiano, sin dalla nascita, chiunque sia figlio di padre o madre cittadini. Le critiche si concentravano sull’assenza, nel modello italiano, di criteri che richiedessero un legame effettivo con lo Stato italiano da parte dei richiedenti nati e residenti all’estero, generalmente discendenti di emigrati italiani con cittadinanze multiple.

La Corte, tuttavia, ha rifiutato di entrare nel merito, affermando che spetta al Parlamento, e non alla magistratura, decidere su eventuali modifiche al modello di trasmissione della cittadinanza. Nella sentenza, i giudici della Consulta hanno sottolineato che ogni intervento della Corte volto a condizionare la cittadinanza per discendenza — tramite requisiti di residenza, cultura o lingua — implicherebbe scelte discrezionali di grande impatto, non compatibili con la funzione giurisdizionale.

Il legislatore, ha scritto la Corte, dispone di un margine di discrezionalità particolarmente ampio nel determinare i presupposti per l’acquisizione della cittadinanza.

Nel valutare gli argomenti dei tribunali, la Corte ha osservato che non si discuteva la legittimità della trasmissione della cittadinanza per legame di sangue in sé, ma la presunta insufficienza di tale legame nei casi in cui i discendenti erano legati anche ad altri ordinamenti giuridici. Tuttavia, ha ritenuto che tale problematica coinvolga una pluralità di variabili — culturali, sociali, migratorie — che non possono essere risolte per via giudiziaria, pena l’usurpazione del ruolo legislativo.

Sono state quindi dichiarate inammissibili le censure fondate sugli articoli 1, 3 e 117 della Costituzione Italiana, comprese quelle che lamentavano la violazione di obblighi dell’Unione Europea e di trattati internazionali.

La decisione ha anche rigettato le tesi secondo cui l’attuale modello creerebbe disuguaglianze rispetto ad altre modalità di acquisizione della cittadinanza, come la naturalizzazione. Secondo la Corte, le situazioni non sono assimilabili, poiché la cittadinanza per discendenza si fonda su presupposti diversi rispetto a quella per residenza o matrimonio.

Infine, i giudici hanno respinto il tentativo di includere nell’analisi il Decreto-Legge n. 36/2025 (ora convertito nella Legge n. 74/2025) — il cosiddetto “Decreto della Vergogna” — che ha recentemente introdotto limiti alla cittadinanza iure sanguinis per i figli minori nati all’estero. Secondo la Corte, tali norme non si applicano ai casi esaminati, avviati prima dell’entrata in vigore della nuova legislazione.

Delusione per chi auspicava un cambiamento

La sentenza era attesa con interesse sia da parte di “movimenti nazionalisti” italiani, che chiedono un freno alla cittadinanza per sangue, sia da parte delle associazioni della diaspora, soprattutto in America Latina, che difendono il modello come espressione storica del legame tra l’Italia e i suoi emigrati.

Per questi ultimi, la sentenza rappresenta una vittoria giuridica, anche se non riconosce esplicitamente la legittimità storica del modello. Per i critici dell’attuale normativa, invece, la Corte ha evitato di affrontare la questione sostanziale.

La Corte Costituzionale riconosce che il legislatore, ossia il Parlamento italiano, dispone di un’ampia discrezionalità nella regolazione della disciplina dell’attribuzione della cittadinanza.

Tuttavia, la Consulta ha avvertito che eventuali nuove norme saranno sempre soggette al vaglio di legittimità costituzionale, in quanto dovranno rispettare i canoni della ragionevolezza e della proporzionalità, oltre a ricordare che la giurisprudenza costituzionale esclude la possibilità che il criterio fondante della cittadinanza possa basarsi su presupposti discriminatori.

A seguire, si pubblicano integralmente i testi ufficiali della Corte Costituzionale: il comunicato stampa e la sentenza completa. È inoltre disponibile sul canale YouTube della rivista Insieme un’intervista con i giuristi Marco Mellone, Giovanni Bonato e Monica Restanio:https://www.youtube.com/watch?v=0RMb9FI9qVg .

Guarda il video, ma si può riassumere così l’intervista: sebbene la recente sentenza della Corte Costituzionale italiana sia una vittoria importante a livello nazionale, la discussione sul diritto alla cittadinanza per discendenza è tutt’altro che conclusa. Secondo il giurista Marco Mellone, la questione dovrebbe ora passare alle istanze giuridiche superiori europee, in particolare alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (Lussemburgo) e alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Strasburgo).

Ciò perché la cittadinanza, in particolare per discendenza, è considerata un diritto umano secondo i trattati europei. Qualsiasi restrizione o tentativo di revoca retroattiva di tale diritto può violare principi fondamentali dell’ordinamento giuridico europeo, come: diritto all’identità culturale e nazionale; sicurezza giuridica e divieto di discriminazione in base al luogo di nascita. È quindi prevedibile che la battaglia giuridica si sposterà anche in ambito europeo, alla ricerca di decisioni che possano annullare definitivamente gli effetti di leggi ritenute abusive, come il decreto Tajani.