L’odiato istituto della residenza: Hanno ragione gli italiani?

Ho apppena scritto un articolo per la partecipazione al Conarci 2024. Per chi non lo sa, si tratta del Congresso Nazionale dell’Ufficio di Stato Civile, al quale sono stato invitato, per il secondo anno consecutivo. Anzi, è importante sottolineare che, gentilmente, sono stato invitato anche per valutare la nuova rivista brasiliana di Stato Civile e Statistiche Vitali – cosa che dimostra, modestia a parte, l’importanza dei miei testi per Insieme ed il riconoscimento della comunità scientifica sulla loro qualità.

Preparando l’articolo, ho pensato di realizzare un paragone tra il Registro Civile brasiliano e gli Uffici italiani. Una cosa è rimasta molto chiara: in Italia, l’Ufficio di Stato Civile – e il suo sdoppaimento nell’Anagrafe – è stato pensato come il grande organizzatore della vita civica dei cittadini. E ciò fin dai primi tempi dello Stato-Nazione; anzi, persino prima, visto che le influenze civili austriaca e napoleonica – e, perché non dirlo, borbonica – sono stati determinanti per la cristallizzazione del modello.

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L’esperienza comunale d’Italia, senza dubbi, ha contribuito molto per l’accettazione di una centralizzazione comunale della vita civica; anzi, centralizzata in modo che il Comune (qui come sinonimo della sede del comune) è sempre il luogo più importante della città, disegnato affinché, lì, si risolvevano tutte le questioni relative alla vita civica. Si fanno le registrazioni civili, ci si iscrive all’anagrafe tributaria e sanitario-assistenziale; lì funziona l’iscrizione elettorale e alle liste militari; spesso, persino organi di supporto o il cui servizio non è strettamente collegato all’Anagrafe possono essere trovati in questo vero “centro della vita civica” del cittadino.

Per il funzionamento del sistema – e il successo dello stretto vincolo tra Stato Civile e Anagrafe – appare, imprescindibile, un concetto giuridico: quello di residenza. Sì, quella che tanto odiamo abitando all’estero. Odiamo fondamentalmente per tre motivi: 1. per essere nati brasiliani, non siamo abituati a vedere le nostre vite dipendere da una prova di residenza; 2. essendo spettatori del diritto al riconoscimento della cittadinanza, vorremmo fare una piccola passeggiata in Italia per, voilà, tornare investiti della cittadinanza e con tutti i documenti; 3. quando cittadini già già riconosciuti, dobbiamo passare per la prova di residenza per essere iscritti nel Consolato di riferimento e all’AIRE per, infine, mettere le mani sul sognato passaporto.

Io stesso ho già odiato questo concetto; ma non per nessuna delle ragioni di cui sopra. Quello che definisco come il più grande dei feticismi italiani – la residenza – l’odiavo per ragioni molto più giuridiche: la non definizione del concetto e l’ingiusta differenziazione tra cittadini nati nel territorio e nati all’estero. Mi spiego.

Definire residenza come “abitazione abituale” – anzi, concetto molto presente nella civilistica continentale (Brasile incluso) non mi è mai sembrato intelligente. E non è che io stia – come fa la dottrina specializzata – contrapponendo residenza e domicilio. Il mio problema è sul concetto di residenza. Si può anche definire la residenza come “abitazione abituale”; ma, secondo me, si deve quantificare la lentezza – cosa che, ai fini della raccolta dell’imposta sul reddito in Italia, è definito (183 giorni per l’anno comune e 184 giorni per l’anno bisestile).

L’altra ragione del mio dissapore è che abbiamo l’impressione che lo spostamento è completamente libero per gli italiani nati nel territorio – ma al contrario per i nati all’estero, no. È una disuguaglianza degna di habeas corpus. Potersi movere liberamente è un diritto fondamentale noto fin dagli antichi romani. Anzi, in questo senso si è già pronunciato un Tribunale italiano: la fissazione di residenza, ai fini del riconoscimento della cittadinanza, serve solo per determinare l’autorità responsabile – e non per bloccare il richiedente fino alla fine della procedura. Portata l’interpretazione al suo limite, ciò significherebbe la possibilità di fissare la residenza in Italia, presentare le pratiche e, subito dopo, senza attendere i risultati, trasferirsi dove meglio si crede.

Legalmente, non credo che la soluzione sia sbagliata – tuttavia, oltre al giuridico, abbiamo l’aspetto sociale (ed etico). Dobbiamo considerare che non è giusto che persone senza nessun legame con una determinata comunità – che, culturalmente, organizza la sua vita intorno ad essa – accettino bene “foresti” che vengono e vanno solo per usare, a volte in modo predatorio, quei disputati servizi pubblici locali. Oltre a non essere etico, il comportamento è profondamente antisociale – e genera, ovviamente e per nulla sorprendente, le antipatie corrispondenti.

D’altro canto la residenza è un istituto interessantissimo come organizzatore della vita civica (in termini di servizi pubblici a disposizione del cittadino), ma, anche, per la pianificazione ed esecuzione delle politiche pubbliche – in particolare sicurezza, trasporti, salute e educazione. Poter dimensionare chirurgicamente le necessità della comunità è il sogno di qualsiasi amministratore pubblico. Contrariamente, convivere con una popolazione molto fluttuante – in particolare nei comuni minori – è un terrore che rende più difficile fare preventivi di spesa e organizzare i servizi pubblici, facendo vedere i suoi effetti nelle urne delle successive elezioni.

Pensando bene, forse sarei d’accordo con i miei odii ed anche con il feticismo della residenza degli italiani. Basta far perdere ad ogni parte qualcosa a favore dell’altra. Organizzare le richieste dei cittadini a favore della demografia è una misura antichissima e intelligente; credo che qui in Brasile dobbiamo imparare dagli italiani; però, non definire un termine per la “residenza abituale” e non stabilire eccezioni (in particolare intelligenti) al feticismo della residenza causa distorsioni.

Pensiamo nei residenti all’estero: per noi, in effetti, c’è la necessità di previsioni di bilancio fondate sul censimento? Quali servizi pubblici chiediamo dallo Stato italiano? Non potrebbero essere centralizzati nel Consolato di riferimento (o il più vicino) non importando la residenza? Per quali motivi un lontano e minuscolo Comune d’Italia deve conoscere il vostro indirizzo nell’entroterra di Rondônia e inviare, là, convocazioni elettorali che arrivano sempre dopo le elezioni?

Ora, pensiamo in quelli che fissano la residenza solo per riconoscere le loro cittadinanze. È giusto richiedere che rispettino almeno l’esaurimento di un ciclo di bilancio comunale, poiché risulteranno nel censimento per poi scomparire proprio al momento dell’esecuzione del  bilancio stesso per il quale sono stati considerati? Possono semplicemente scomparire dai comuni, non modificando la loro residenza e in attesa di una dichiarazione di irrepetibilità semplicemente a causa della pigrizia (o dell’ignoranza) rispetto ai loro doveri?

La struttura delle politiche e dei servizi pubblici partendo dal dato organizzatore della residenza è, in effetti, in sé buona. Non posso odiarla così tanto o ridurla a semplice feticismo: però, affinché funzioni bene, in presenza di uno scenario in cui concetti sono molto indefiniti, c’è bisogno di buon senso – e da entrambi i lati. Buon senso dello Stato, di allentare alcuni rigori, e buon senso del cittadino, comprendendo i suoi doveri e cooperare, quanto più può, per non disturbare una cultura civica che esiste da molto prima di lui e che, a ben vedere, proseguirà per altrettanto tempo.