Raffaele Marchetti torna a criticare il decreto italiano che chiude le porte alla diaspora: “La festa è finita”

Raffaele Marchetti, professore di Relazioni Internazionali presso il Dipartimento di Scienze Politiche e la Scuola di Governo dell’Università Luiss, nonché direttore del Centro di Studi Internazionali e Strategici (CISS) della stessa istituzione, è tornato a criticare duramente il Decreto-Legge n. 36/2025, noto come Decreto Tajani, approvato dal Consiglio dei Ministri italiano il 28 marzo. In un articolo pubblicato nell’edizione odierna (08/04/2025) del quotidiano Il Sole 24 Ore e anche in un’intervista esclusiva rilasciata alla rivista Insieme, Marchetti ha avvertito che il decreto non solo chiude le porte a milioni di italo-discendenti, ma potrebbe anche ridurre la popolazione italiana di un terzo entro la fine del secolo.

Approvata da un governo considerato sensibile alla causa dei discendenti degli italiani — tradizionalmente più presente nell’agenda del centrodestra — la misura legislativa, secondo Marchetti, non offre una risposta strategica alla necessità di un coinvolgimento con la diaspora italiana, stimata in circa 90 milioni di persone nel mondo.

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Il decreto-legge e i due disegni di legge in preparazione mirano a rafforzare il legame effettivo tra chi desidera essere cittadino italiano e l’Italia, in reazione agli abusi commessi negli anni da chi cercava il passaporto solo per ottenere cure sanitarie gratuite o per viaggiare senza visto con un passaporto europeo. In questo modo, si intende rispondere alle difficoltà amministrative affrontate dai comuni, dai tribunali italiani e dai consolati, oltre a risparmiare risorse pubbliche. Si tratta, in sintesi, di rafforzare l’idea della cittadinanza come autentica richiesta di appartenenza alla comunità nazionale.

Potranno ottenere la cittadinanza solo gli italo-discendenti nati all’estero che abbiano un cittadino italiano nato in Italia nelle due generazioni precedenti. I figli di italiani nati all’estero potranno avere diritto solo se nati in Italia o se uno dei genitori abbia risieduto in Italia per almeno due anni consecutivi prima della nascita. Inoltre, i disegni di legge che accompagnano il decreto prevedono che i cittadini nati all’estero debbano dimostrare un legame con l’Italia almeno ogni 25 anni, tramite il voto, il pagamento delle tasse o la richiesta di documenti. La registrazione della nascita dovrà avvenire prima del compimento del 25° anno di età e la domanda di cittadinanza sarà centralizzata presso il Ministero degli Affari Esteri, con un costo stimato di 700 euro.

Questa riforma, da un punto di vista amministrativo, ha una logica nel ridurre costi e burocrazia. Tuttavia, da una prospettiva strategica nazionale, la riforma non offre risposte alle grandi questioni della proiezione internazionale del nostro Paese. Non delinea politiche in grado di valorizzare il patrimonio rappresentato dalle numerose comunità di oriundi italiani nel mondo — semplicemente, chiude la porta. L’Italia è in declino: ha un peso demografico in costante riduzione e un’economia in calo relativo. Le proiezioni ONU indicano che, entro la fine del secolo, la popolazione italiana scenderà sotto i 40 milioni di abitanti — contro gli attuali 60. Ciò significa una perdita di un terzo della popolazione.

Secondo Marchetti, l’Italia sta sprecando una risorsa preziosa trattando la diaspora come una minaccia e non come un’opportunità. Al contrario di Paesi come Israele, Cina e Irlanda, che hanno saputo integrare le loro comunità esterne nel proprio progetto nazionale, il governo italiano starebbe scegliendo semplicemente di chiudere la porta.

La reazione internazionale non si è fatta attendere. La comunicazione avrebbe potuto essere gestita diversamente. Invece di trasmettere l’idea di una relazione reciproca e costruttiva con la diaspora, il messaggio arrivato in America Latina è stato che “la festa è finita”. In Argentina e in Brasile, le comunità italo-discendenti hanno reagito con indignazione, definendo la misura come l’ennesimo tradimento storico.

Marchetti sostiene una visione più ampia di italianità, capace di integrare cittadini residenti in Italia, cittadini residenti all’estero e oriundi — discendenti senza cittadinanza formale, ma con un forte legame culturale e affettivo con il Paese d’origine. Se l’Italia vedesse questa rete come un’unica comunità — di 100-150 milioni di persone, distribuite su più continenti — le implicazioni per la politica, l’economia, la cultura e la sicurezza sarebbero enormi. Insistendo su un approccio restrittivo, secondo lui, l’Italia spreca un’opportunità di proiettare la propria influenza globale, rafforzare i legami commerciali, espandere il turismo e rivitalizzare la propria cultura. C’è ancora tempo per correggere la rotta, ma sarà necessario ripensare il ruolo della diaspora come parte fondamentale del futuro italiano.

Intitolato “Cittadinanza: porte chiuse alla diaspora italiana”, l’articolo di Marchetti è il seguente: “Il Consiglio dei Ministri n. 121 del 28 Marzo 2025 ha approvato la riforma delle norme sulla cittadinanza collegata allo jus sanguinis. Malgrado l’attuale sia uno dei governi più sensibili al tema degli italo-discendenti (essendo questo un tema tradizionalmente più rilevante nell’agenda del centro destra piuttosto che in quella del centro sinistra), la riforma va nella direzione di un restringimento dell’accesso alla cittadinanza e quindi complessivamente non da risposte alla necessità di un ingaggio strategico con la diaspora italiana nel mondo. Il decreto legge e i due disegni di legge in gestazione puntano a rafforzare il legame effettivo tra chi vuole essere cittadino italiano e l’Italia, contro gli abusi commessi negli anni da chi cercava il passaporto solo per ottenere cure sanitarie gratuite o poter viaggiare visa-free con un passaporto europeo. In questo modo si dà una risposta alle sofferenze amministrative dei Comuni, dei tribunali italiani e dei consolati, e si punta complessivamente a risparmiare risorse delle casse dello Stato. Si cerca insomma di rafforzare l’idea della cittadinanza come vera richiesta di far parte della comunità nazionale

Potranno accedere alla cittadinanza solo gli italo-discendenti nati all’estero che hanno un cittadino italiano nato in Italia nelle precedenti due generazioni. Per i figli di italiani nati all’estero, la cittadinanza si acquisisce solo se nascono in Italia o se, prima della loro nascita un genitore ha risieduto almeno 2 anni continuativi in Italia. Con i seguenti disegni di legge si imporrà ai cittadini nati all’estero di mantenere legami reali con l’Italia almeno una volta ogni 25 anni attraverso il voto, il pagamento delle tasse o la richiesta di documenti. Si dovrà registrare atto di nascita prima del 25 anno di età e la richiesta di cittadinanza andrà presentata ad un ufficio centrale del Maeci con un costo che dovrebbe arrivare a 700 € (contro i 300 € di qualche tempo fa).

Questa riforma, se vista all’interno di una logica amministrativa, è sensata: riduce le pratiche e i costi. Il decreto è una scure che si abbatte sul numero totale di richiedenti asilo: Il risultato netto sarà un immediato calo delle domande e forse un aggravio per gli ospedali italiani che dovranno accogliere italo-discendenti in procinto di partorire.

Tuttavia secondo una logica strategica nazionale non offre delle risposte ai temi macro di proiezione internazionale del nostro Paese. Non disegna politiche in grado di mettere a frutto il patrimonio costituito dalle numerose comunità degli oriundi italiani nel mondo, semplicemente chiude la porta. L’Italia è in declino: ha un peso demografico che si va restringendo e un’economia in calo relativo. Le proiezioni Onu ci dicono che per fine secolo la popolazione italiana scenderà sotto i 40 milioni di persone (dagli attuali 60) e che il Pil italiano è destinato a fuoriuscire dal gruppo delle prime dieci economie del mondo. Non siamo in condizione di poter sprecare alcunché.

La diaspora italiana nel mondo complessivamente è stimata sui 90 milioni di persone, concentrate soprattutto in Sud e Nord America, ma anche in Europa e Australia. Se pensassimo l’Italia come una comunità differenziata e però integrata di cittadini che risiedono in Italia, di cittadini che risiedono all’esterno e di oriundi che pur non avendo titolo alla cittadinanza preservano comunque un legame con il Paese, allora la comunità italiana ci apparirebbe come una comunità di circa 100/150 milioni di persone, disperse territorialmente su più Paesi e più continenti, e caratterizzata da una componente diasporica molto significativa. Tutto ciò avrebbe implicazioni di policy assai rilevanti per la politica, l’economia, la società, la cultura e la sicurezza del nostro Paese.

lla base c’è un diverso modo di concepire la diaspora. In larghi settori dalla pubblica amministrazione e della politica domina una visione che pensa la diaspora come una “minaccia”: come un peso, un costo se non addirittura una truffa. C’è però una visione diversa della diaspora come una “opportunità”, una visione che pensa che se opportunamente attivate le comunità diasporiche posso dare un contributo importante in termini di influenza politica e soft power, di sviluppo di business e turismo, di condivisione di intelligence, di arricchimento culturale e forse anche in termini demografici. Il terreno è fertile, basti vedere la reazione stampa in Argentina e Brasile dove si è reagito al decreto gridando all’ennesimo tradimento. La comunicazione andava gestita meglio. Invece di segnalare che l’Italia è aperta ad ingaggiare la diaspora per sviluppare un futuro migliorie e una relazione mutualmente benefica in nome della comune origine, il messaggio recepito dall’altra parte dell’oceano è che “la festa è finita”. C’è ancora da imparare da paesi come Israele, la Cina o l’Irlanda che sanno come capitalizzare sulle proprie diaspore nel mondo.

Center for International and Strategic Studies-Luiss”

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