u CURITIBA-PR – La crisi finanziaria globale ha già innescato una recessione economica che sta degenerando in una pericolosa depressione mondiale con aumento della disoccupazione, della povertà e del sottosviluppo e con gravissime conseguenze politiche e sociali. Dalle bancarotte delle banche si è passati ai fallimenti di interi settori industriali, come quelli dell’auto, alle crisi creditizie delle piccole e medie industrie, che nonostante tutto restano i capisaldi dell’economia produttiva, alla riduzione dei redditi delle famiglie con contrazioni nei consumi, nel lavoro e nei nuovi investimenti, a riduzioni nel commercio internazionale. L’allarme riportato da titoli altisonanti dei media internazionali, più che a sollecitare una vera riforma globale, per il momento sembra essere un mero espediente per battere cassa presso i governi. Fino ad oggi gli USA hanno immesso liquidità e aiuti per 1.500 miliardi di dollari e l’Europa per oltre 1.800 miliardi di euro (quasi 2.300 miliardi di dollari) senza incidere benché minimamente sulla pandemia della crisi finanziaria.

PATROCINANDO SUA LEITURA

 

Vorrei citare alcuni paragrafi della “Dichiarazione di Modena”, redatta da un gruppo di lavoro di economisti e politici russi e italiani, riuniti il 7-8 luglio scorso per il seminario “The World Finance: New Initiatives” nella città di Modena, a metà strada tra Roma e Milano, organizzato da me per la parte italiana e da Yury Gromiko per la parte russa. Erano già stati scritti milioni di pagine, articoli e libri sulla genesi delle crisi attuale; noi abbiamo voluto in poche righe delineare un’analisi di quelli che riteniamo essere i punti fondamentali. L’intero testo della “Dichiarazione di Modena” è agli atti di questo congresso. (vedi allegato N.1)

 

“La crisi, che ha avuto un’accelerazione esponenziale negli ultimi 10-15 anni, è in realtà partita con la decisione del 15 agosto 1971 di sganciare il dollaro, moneta dei pagamenti internazionali e del commercio mondiale, dal valore delle riserve auree. L’oro, che non ha qualità magiche, serviva solamente ad ancorare il valore del dollaro e delle altre monete ad un riferimento reale. Da quel momento si è permesso la crescita cancerosa di capitale fittizio, un sistema di cambi monetari fluttuanti e il progressivo sganciamento della finanza, soprattutto quella speculativa, dagli andamenti sottostanti dell’economia produttiva.

 

“Il sistema finanziario e monetario sempre più deregolamentato e sottratto ai controlli preposti, ha minato ogni forma di governance dando così origine ad una serie di bolle finanziarie, fagocitando i settori industriali, commerciali, e agricoli produttivi.

 

“La bolla speculativa più pericolosa e fuori da ogni controllo è quella dei cosiddetti prodotti finanziari derivati. Secondo le stime della Banca dei Regolamenti Internazionali (BRI) di Basilea, il valore nozionale dei derivati Over The Counter (OTC), cioè quelli trattati fuori dai mercati ufficiali e non registrati sui bilanci delle banche e degli altri operatori finanziari, ammonta a oltre 600.000 miliardi di dollari, con un aumento medio esponenziale annuo del 25%! Basta paragonare questa bolla speculativa, inesistente 20 anni fa, al PIL mondiale, calcolato intorno a 55.000 miliardi di dollari a prezzi correnti, per avere la fotografia della crisi.”

 

Vorrei aggiungere che la crisi globale non è tale solamente perché colpisce l’intero pianeta, ma perché è la crisi della cosiddetta globalizzazione neoliberista, soprattutto finanziaria, fatta senza regole, sulla base di un debito, prima di tutto americano sia interno che esterno, cresciuto a una altissima velocità, che ha dato vita ad una patologia degenerativa, la moderna “tecnofinanza”,  che ha fatto della leva finanziaria, del rifiuto della valutazione del rischio e della complicità delle agenzie di rating i suoi commandos demolitori.

 

La Dichiarazione poi proponeva il progetto di una riforma globale, di una “Nuova Bretton Woods”, delle cui misure prioritarie parlerò in seguito.

 

Due settimane dopo Modena crollavano tutti gli argini e l’ondata della crisi finanziaria, con i fallimenti delle banche e delle assicurazioni principalmente in USA e in Europa, diventava inarrestabile. Dopo i mutui subprime, le inadempienze sui contratti in derivati hanno creato una crisi di liquidità con effetti di smobilizzo a catena. Da lì il susseguirsi delle operazioni di salvataggio delle banche con iniezioni di liquidità fatte senza alcun metodo e alcuna priorità, come ho denunciato insieme all’On. Mario Lettieri, in un articolo dove chiedevamo invece un approccio da curatore fallimentare per distinguere le parti sane del sistema bancario da salvare e sostenere, da quelle tossiche, a cominciare dai derivati OTC, da congelare e neutralizzare.

 

Questi concetti sono stati affrontati anche in un seminario di studi intitolato “Crisi finanziaria globale: proposte per il G-20” che ho organizzato con altri politici ed economisti impegnati per la Nuova Bretton Woods, a Roma in una sala di Palazzo San Macuto della Camera dei Deputati il 13 novembre.

 

Il summit del G-20 a Washington il 15 novembre scorso è stata un’occasione mancata. Naturalmente è un risultato atteso in quanto non ci si può aspettare che le stesse istituzioni e gli stessi uomini che hanno favorito e sostenuto le politiche che hanno creato le bolle finanziarie, che erano e sono asserviti agli interessi della grande finanza speculativa e che ancora oggi osteggiano una vera riorganizzazione del sistema finanziario globale, possano intraprendere azioni concrete e coraggiose di riforma. Molte speranze devono essere poste nel nuovo governo di Barack Obama, ma dobbiamo già da adesso sapere che gli USA da soli, o con una pretesa egemonia oramai scemata,  non sapranno affrontare la crisi in modo risolutivo e giusto.

 

Dall’analisi del comunicato finale del G-20 emergono una serie di indicazioni estremamente negative e preoccupanti. L’unica novità positiva e storica è il coinvolgimento dei cosiddetti paesi emergenti, come il Brasile, la Cina, l’India, il Messico, anche se, più che dare una voce e un  peso politico più forti, a loro è stato subito richiesto di partecipare ai costi del “bail out”, al salvataggio del sistema bancario in crisi.

 

1) Al Fondo Monetario Internazionale (FMI), nonostante le responsabilità nell’indurre i paesi emergenti a intraprendere politiche fallimentari, vedi il caso dell’Argentina, è stato dato più potere di intervento e di condizionamento. Insieme al Financial Stability Forum, presieduto dal governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, che è stato anche un alto dirigente della banca d’affari Goldman Sachs, il FMI viene da molti indicato come il possibile regolatore unico globale all’interno di una World Financial Organization, a imitazione del WTO , l’organizzazione mondiale del commercio. L’idea è di arrivare a stabilire una sopranazionalità nelle gestione e nella supervisione della finanza e dell’economia mettendo fuori campo il ruolo degli stati nazionali, con i loro governi e  i loro parlamenti eletti democraticamente. Una simile soluzione, promossa anche da molti economisti liberal, risulterebbe in una devastante dittatura della finanza e della speculazione sull’intero sistema. Se un simile sistema sopranazionale fosse già in vigore, oggi  potremmo immaginare le politiche autoritarie e di austerità che sarebbero state imposte per salvare le banche, senza alcuna opposizione e alcuna voce per rappresentare gli interessi e i diritti legittimi delle popolazioni, dei produttori e dei consumatori.

 

2) Un sistema di regole, come viene da tutti accademicamente auspicato, avrebbe dovuto essere indicato subito, a partire per i settori più minacciosi e speculativi, come quelli dei derivati OTC. Pensare di salvare l’ammalato e il cancro con mere iniezioni di liquidità non funziona. Occorre concordare un sistema per fermare immediatamente queste operazioni speculative e prosciugare la palude. Invece il documento finale parla solamente di “rafforzare la trasparenza” e addirittura di “migliorare l’infrastruttura dei mercati OTC per renderli capaci di supportare volumi crescenti”!

 

3) La crisi finanziaria e bancaria è sbarcata sui lidi dell’economia reale, i cui settori si stanno avvitando come un aeroplano che perde quota. Non siamo in una cosiddetta crisi ciclica o di assestamento , bensì in una crisi sistemica. Per cui non basta l’auspicio del summit di Washington di “stimolare le nostre economie.. stimolare la domanda interna”. Occorre riproporre in termini moderni il binomio “intervento pubblico” e “ritorno alla produzione”, e definire un condiviso, coordinato programma di grandi innovazioni tecnologiche e scientifiche, di grandi progetti infrastrutturali, industriali e agricoli moderni di portata continentale, su cui poi innestare progetti regionali e locali, anche piccoli e settoriali, per aumentare la ricchezza prodotta in modo più intelligente, umano e amico dell’ambiente e per migliorare la produttività del lavoro e del sistema economico. Si tratta di mettere gli interessi delle popolazioni e degli stati prima di quelli del mercato, sostenendo concretamente i salari, i redditi più bassi dei lavoratori precari, dei pensionati e degli studenti, agevolando le attività della piccola e media imprenditorialità privata.

 

Desidero a questo punto introdurre brevemente alcuni aspetti della politica europea ed italiana che possono essere di stimolo alla nostra riflessione e alle nostre decisioni e proposte.

 

  La crisi bancaria ed economica ha messo in discussione i dettami del Trattato di Maastricht, come il criterio che limita il deficit al 3% del PIL nazionale, dettami proprio di quella impostazione sopranazionale che alcuni, come ho detto, propongono oggi per gestire il futuro sistema finanziario. Nicolas Sarkosy e Angela Merkel, e poi anche la Commissione di Bruxelles, chiedono adesso una sospensione per almeno uno-due anni permettendo sforamenti del deficit pubblico. Bisognerà tra l’altro smettere di considerare come costi gli investimenti produttivi, ad esempio in nuove infrastrutture, e porli fuori dai parametri limitativi del Trattato.

 

  La crisi di oggi è differente, in quanto potenzialmente molto più grave, di quella del ’29 e degli anni a seguire. Quest’ultima ha visto una crisi bancaria e di liquidità e una profonda deflazione, un collasso commerciale internazionale e una forte disoccupazione di massa. Allora l’America ne uscì con la politica del presidente FD Roosevelt di riforma bancaria e del New Deal, mentre l’Europa sprofondò nelle dittature più violente e disumane della storia dell’uomo. Oggi, ai vecchi meccanismi di crisi si aggiungono l’esistenza di una bolla speculativa di dimensioni inimmaginabili, una totale globalizzazione del sistema e della crisi e una completa deregulation.

 

  Anche la “Nuova Bretton Woods” dovrà avere delle priorità differenti da quella del 1944 dove vi era una nazione vincitrice, gli Stati Uniti, creditrice nei confronti del resto del mondo, una moneta dominante, il dollaro, un’alleanza politica predefinita, anche se escludeva la maggioranza dei paesi e della popolazione del mondo. Oggi invece abbiamo questa potenza dominante in declino, indebitata con il resto del mondo, con un’economia in crisi e un sistema finanziario in bancarotta. La Nuova Bretton Woods non potrà quindi che essere multipolare in tutti i campi istitutzionali, politici, militari ma soprattutto economici e monetari. I nuovi attori dovranno coordinare le loro azioni insieme, e con l’America, in modo tale da evitare reazioni e calcoli sbagliati che potrebbero provocare crisi politiche internazionali ancor più gravi. La Nuova Bretton Woods non può quindi rifarsi troppo al vecchio sistema stabilito nel 1944, ma dovrà attingere dalle esperienze di FD Roosevelt e di JF Kennedy, dalla “Pianificazione indicativa” di Charles De Gaulle e dall’idea di  “Stato imprenditore” di  Enrico Mattei, il fondatore dell’ENI, e dalle politiche di sviluppo e di indipendenza del Movimento dei Non Allineati e dei paesi emergenti come il Brasile e il Mercosul. Non si tratta solamente di definire regole per il sistema finanziario, monetario ed economico ma di disegnare nuove istituzione per un nuovo modello di civiltà.

 

  In Italia, mentre per le politiche sul fronte interno non ci sono grandi condivisioni, bisogna sottolineare il ruolo positivo che il ministro dell’economia Giulio Tremonti sta portando avanti a livello internazionale per far fronte alla crisi globale. Tremonti è stato uno dei pochi a denunciare il pericolo delle dittatura finanziaria e della deregulation, proponendo una “nuova Bretton Woods” di regole e proposte coerenti di rilancio economico, come indicato nel suo recente libro “La Paura e la Speranza”. Tremonti rilancia l’idea dello stato virtuoso colbertista di intervento pubblico a sostegno dello sviluppo, riprendendo anche importanti progetti per la formazione del credito, come i bond per finanziare le infrastrutture e per la partecipazione diretta in quote di capitale (equity) attraverso l’utilizzo della rete di istituti nazionali, sotto il controllo dello stato, come la Cassa Depositi e Prestiti in Italia, la Caisse des Depots et Consignations in Francia e la Kreditastalt fuer Wiederaufbau (KfW) in Germania, che con tecniche differenti ma con lo stesso orientamento di base hanno promosso la ricostruzione economica e lo sviluppo del dopoguerra. Oggi anche la Banca Europea per gli Investimenti (BEI) può partecipare in un simile progetto.

Tremonti deve in ogni caso abbandonare l’idea vecchia e perniciosa di un protezionismo fatto di dazi e tariffe che porterebbe solamente a guerre commerciali e ad un collasso del commercio internazionale. Il ministro italiano rimane comunque uno dei pochissimi uomini di governo ad ammonire che il peggio della crisi deve ancora arrivare, come ha fatto in una recente intervista al Corriere della Sera del 9 novembre dove ha detto:” E’ come essere dentro ad un videogame: arriva un mostro, lo abbatti, e mentre tiri il respiro ne arriva un secondo, diverso. E poi un terzo sempre più grande, e un quarto. Il primo mostro sono stati i mutui, ed in qualche modo sono stati gestiti. Ora sta arrivando il secondo, le carte di credito, che in America sono carte di debito, e anche questo potrebbe essere gestito. Si sta avvicinando il terzo mostro, i finanziamenti alle imprese, inclusi i corporate bond in scadenza. E sullo sfondo si profila il supermostro, i ‘derivati’”.

 

Vorrei quindi concludere sottoponendo alcune proposte di studio già indicate in modo molto sintetico nella “Dichiarazione di Modena”. Sono tracce di un percorso di lavoro per realizzare la “Nuova Bretton Woods”.

 

 

“Riforma del sistema monetario, reintroducendo tra l’altro: a) la stabilità di un sistema moderno di cambi fissi, modificabili solamente nel contesto di accordi sottoscritti dalle parti e agganciati agli andamenti delle economie reali, b) l’ancoraggio ad un sistema di riserve auree oppure a un paniere di materie prime e/o di monete da stabilire, c) la definizione di una nuova moneta o di un paniere di monete (quindi non più solamente il dollaro) accettato nel sistema dei pagamenti internazionali, d) controlli contro la speculazione sui cambi, e) controlli sui movimenti di capitali, f) creazione di una sistema di credito a doppio sportello con tassi di interessi bassi e a lungo termine per gli investimenti produttivi e tassi alti e punitivi per le operazioni puramente finanziarie, g) definizione dei nuovi compiti delle organizzazioni internazionali come il FMI e la Banca Mondiale, il cui ruolo è stato stravolto nelle crisi recenti.

 

 

“Riforma del sistema finanziario, attraverso tra l’altro: a) la regolamentazione dei prodotti derivati esistenti, b) l’introduzione di regole per vietare gli accordi privati OTC, per prosciugare la bolla dei derivati, e per definire il loro funzionamento futuro, c) l’obbligo di negoziazione in borsa dei derivati, di standardizzazione, di autorizzazione da parte di un’autorità di controllo, d) la soppressione dei centri off-shore,  e) l’interdizione delle attività speculative degli hedge fund, delle operazioni di cartolarizzazione (emissione di titoli sulla base di altri titoli di debito), f) l’aumento della tassazione per sia sulle operazioni finanziarie speculative che sui redditi provenienti dalle suddette operazioni, g) il sostegno del settore bancario e creditizio pubblico e privato necessario e indispensabile alla politica di investimenti reali e produttivi.

 

 

“Riforma del sistema commerciale, attraverso tra l’altro: a) la revisione dell’accordo del World Trade Organizations che ha deregolamentato anche le produzioni e i commerci a scapito dell’efficienza e della produttività dell’intero sistema, b) la promozione e il sostegno di grandi investimenti infrastrutturali a livello continentale nei settori dei trasporti, energia, comunicazioni, R&D ecc., c) creazione di organismi di finanziamento (bond produttivi) di simili progetti come ad esempio previsto dal “Piano Delors”, d) riforme fiscali favorevoli agli investimenti e al riutilizzo virtuoso dei profitti nel sistema produttivo; definizione di principi doganali, di protezioni sociali e di garanzie ambientali in un nuovo trattato di unione commerciale globale.”

 

 

Le prossime tappe davanti alla crisi e alla sua soluzione saranno segnate dall’inizio dell’Amministrazione di Barack Obama il 20 gennaio prossimo, dal secondo Summit del G-20 dopo la fine di marzo e dalla conferenza internazionale sempre del G-20 programmata per l’inizio di luglio sull’Isola della Maddalena in Sardegna. Per la prima Bretton Woods ci sono voluti due anni di preparazioni e discussioni e una conferenza internazionale di capi di stato e di governo durata tre settimane. I nostri tempi sono molto più stretti. Dobbiamo arrivare a stabilire la nuova architettura finanziaria, economica e politica globale prima che le crisi creino altre situazioni fuori di ogni controllo ed esplosioni sociali. Questo deve essere fatto stabilendo contatti diretti e alleanze di lavoro tra le nazioni impegnate, tra i governi e i parlamenti e altre istituzioni, del Brasile, e delle nazioni dell’America Latina, della Russia, della Cina, dell’Italia e degli altri paesi dell’Europa, degli Stati Uniti. A decidere del futuro devono essere gli stati e le popolazioni e non gli interessi della finanza internazionale.