© Luiz Alberto De Boni e Frei Rovílio Costa*

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u Il Rio Grande do Sul si trova nell’estremo meridionale del Brasile. Con un’area di 282.184 km2, contava approssimativamente 40.000 abitanti al momento dell’indipendenza del Brasile, nel 1822. Nel 1875, all’inizio dell’immigrazione italiana di massa, gli abitanti erano 400.000. Oggi ne conta 10,5 milioni. La capitale è Porto Alegre, con 1,4 milioni di abitanti, che salgono a 3,8 milioni se si comprende l’area metropolitana.

Alla fine del XV secolo, la regione non destó l’interesse né dei portoghesi, né degli spagnoli, a causa della sua costa sabbiosa quasi inaccessibile ed un entroterra con praterie vuote e enormi o con montagne ripide. I primi europei a stabilirsi nello Stato furono i Gesuiti, a partire dal 1629. Fra loro c’erano degli italiani, come il milanese Giovanni Battista Primoli, architetto sia della chiesa di São Miguel – oggi in rovina, nel municipio di Santo Ângelo –, sia della Cattedrale di Còrdoba e di Cabildo di Buenos Aires, in Argentina.

La massiccia immigrazione triveneto-lombarda verso il Rio Grande do Sul si inserisce nella grande ondata migratoria del XIX e inizio del XX secolo, che portò decine di milioni di europei verso altri continenti, principalmente verso le Americhe. In quel periodo si stabilirono in Brasile circa 6 milioni di europei, tra i quali 1,5 milioni erano italiani. Di questi, approssimativamente 100 mila si stabilirono nel Rio Grande do Sul.

Prima ancora dell’indipendenza, il governo di Dom João VI aveva promosso la venuta in Brasile di svizzeri e tedeschi, con i quali creò, fra altro, la colonia di Nuova Friburgo, a Rio de Janeiro. Fu nel 1824 che i tedeschi entrarono nel Rio Grande do Sul, fondando la colonia di São Leopoldo alla quale seguirono diverse altre. Il governo imperiale, guidato da un’élite di funzionari portoghesi e da brasiliani non compromessi con i grandi latifondisti, si proponeva di cambiare le strutture del paese, fino ad allora basate sulla triade: monocultura, latifondo e schiavitù. I coloni avrebbero dovuto essere dei piccoli proprietari policultori che, tramite il lavoro libero, avrebbero provveduto ai beni di prima necessità per il Paese. Ci si attendeva da loro e dai loro successori che venissero ad aprire piccole industrie; che, occupando il suolo nel sud, fungessero da barriera contro le pretese dell’Argentina; che rendessero possibile la formazione di un esercito di bianchi (la rivolta nera di Haiti era presente nella memoria di tutti) e che, in mezzo a negri e mulatti, che costituivano la grande maggioranza della popolazione brasiliana di allora, si trasformassero nel fattore di imbiancamento della razza.

Tra il 1824 ed il 1830 circa 5.300 tedeschi entrarono nel Rio Grande do Sul; la maggior parte si stabilitì nell’area dei boschi del bassopiano a nord di Porto Alegre. Ad ogni famiglia è stata data un appezzamento di terra di circa 77 ettari. Nonostante le difficoltà affrontate, l’esperienza fu un successo e, in breve tempo, ecco che i coloni scendevano in barca lungo il Rio dos Sinos per vendere i loro prodotti a Porto Alegre. In modo insperato, nel bilancio del 1830, furono tagliati tutti i fondi destinati all’immigrazione e alla colonizzazione; e, con atto aggiuntivo del Reggente, gli oneri per l’arrivo degli stranieri passarono nel 1834 alle provincie, alle quali, prive di risorse risorse proprie, non erano state neanche destinate terre apposite, che, invece, continuavano ad appartere al potere centrale. La causa di un cambiamento così improvviso sta nel parlamento brasiliano, che si strutturó in quegli anni e si impadroní del potere. Il sistema elettorale, che privilegiava le grandi fortune, provocò l’elezione dell’élite agraria dell’impero, immediatamente entrata poi in contrasto con le idee modernizzatrici di Dom Pedro I che, nel 1831, finì per rinunciare. Padroni della situazione politica, i grandi latifondisti consolidarono il loro potere, impedendo l’ingresso di coloni stranieri, il cui modello di produzione, basato sulla piccola proprietà nell’agricoltura mista e nel lavoro familiare, rappresentava una bomba ad effetto ritardato per l’arcaico sistema di produzione vigente.

Disprezzare la colonizzazione europea voleva quindi dire scommettere sul sistema schiavista. Nonostante, la legislazione promulgata su richiesta dell’In-ghilterra per il riconoscimento dell’indipendenza, mai come allora tanti schiavi entrarono in Brasile: approssimativamente 50 mila l’anno, tra il 1830 ed il 1850. Di circa di 4 milioni di africani deportati in Brasile in più di tre secoli di schiavitù, la metà entrò nel paese dopo la proibizione legale del 1831. È che il Brasile, allora il paese più ricco d’America, comprava di Inghilterra i 7/10 del materiale destinato al trasporto degli schiavi, e concedeva alla marina mercantile inglese i 3/8 del trasporto dello zucchero, la metà di quello del caffè e i 5/8 di quello del cotone brasiliano. Con il cambiamento della situazione e poiché gli interessi inglesi si rivolgevano anche all’Africa, fu relativamente facile per l’impero britannico liquidare la schiavitù in Brasile. Appoggiata dalla legge Bill Aberdeen (1845), la marina inglese intercettava navi di negrieri, invadeva porti per arrestarli e pattugliava stabilmente l’intera costa brasiliana. Così in pochi anni il traffico finì: nel 1849 entrarono approssimativamente 54 mila schiavi; nel 1852, solamente 700.

Nel decennio tra il 1840 e il 1850, l’economia brasiliana passò attraverso importanti trasformazioni: il caffè aveva sostituito definitivamente lo zucchero come principale prodotto di esportazione, ed il centro economico del paese si spostó dal nord-est verso San Paolo. Le coltivazioni di caffè crescevano, mentre si esauriva la fonte di approvvigionamento della mano d’opera: uno schiavo costava 2 milioni di réis, e il suo profitto annuale era tra i 200 e i 300 mil réis, appena sufficienti per gli interessi d’ammortamento. Divenne necessario, di conseguenza, fare appello nuovamente al lavoro europeo, lasciando però da parte le ragioni che, un quarto in secolo prima, avevano portato alla colonizzazione tedesca. Prevalse esclusivamente la preoccupazione di ottenere lavoratori salariati per le grandi monoculture di San Paolo. A partire da questo momento, l’unico modo per capire la legislazione brasiliana sull’immigrazione e la colonizzazione, apparentemente incoerente ed anche contraddittoria, è tener presente che la ricerca di immigranti fu determinata dalla crisi dell’ istituzione della schiavitù.

Già nel 1847 fu tentata l’introduzione dei contratos de parceria nelle fazendas di San Paolo. Si trattava, però, di veri e propri patti leonini, tramite i quali il colono vendeva il suo lavoro futuro per pagare le spese che aveva avuto il proprietario della terra, dal suo imbarco nel porto di origine. Criticati in Europa come forma di schiavitù camuffata, tali contratti furono soppressi, quando Germania, Inghilterra, Francia e più tardi Italia adottarono restrizioni all’emigrazione verso l’impero del Brasile.

Nel 1848, il potere pubblico tornó a legiferare con lo scopo di riattivare la corrente migratoria. La legge nº 514, allora promulgata, donò ad ogni provincia un’estensione di 36 leghe in quadras di terre devolute per promuovere la colonizzazione. La legge sembrò ritornare al periodo precedente, facilitando l’accesso alla proprietà. Perciò non fu vista con favore dai grandi proprietari, per i quali era chiaro che l’unico modo di attirare gli immigranti europei verso l’agricoltura del caffè era impedire loro l’accesso diretto alla terra. In questa prospettiva deve essere vista la legge generale 601, del 18 settembre 1850, così come il suo regolamento, approvato per decreto nel 1854. La preminenza di ottenere lavoratori (da ricordare che nello stesso anno 1850 fu promulgata la Legge Eusébio de Queiroz, che proibiva il traffico degli schiavi), fece sì che la legge partisse con determinazione alla ricerca di immigranti, regolando una serie di dispute che erano state differite per alcuni decenni, come quella sulla naturalizzazione e sul servizio militare. Nacque la Ripartizione delle Terre Pubbliche, che centralizzò tutto quello che era legato agli aspetti tecnici della colonizzazione. Comunque, la cosa più importante, che sin da allora non è più stata cambiata, è che le terre non potevano essere donate: l’acquisto divenne l’unico mezzo di accesso alla proprietà. Ci si aspettava così che l’immigrante carente di risorse economiche, sarebbe stato costretto a vendere il suo lavoro inizialmente, per accumulare i mezzi necessari per la posteriore acquisizione di una gleba. Una ricerca fatta poi dal governo mostrò la deplorevole situazione dell’immigrazione europea in Brasile: tra il 1819 ed il 1850 arrivarono nel paese 25.590 immigranti – era la metà del numero di schiavi che entrava annualmente dall’Africa. Comunque, la nuova legge non fu capace di attirare immigranti. Perciò, a partire dal 1865, il governo brasiliano cominciò a proporre ai candidati all’immigrazione il pagamento della differenza del costo del biglietto tra Europa e Stati Uniti e tra Europa e Brasile. Visto che non si registrava aumento nel numero di immigranti e visto che la campagna per l’abolizione della schiavitù prese piede, fu elaborato, nel 1867, un nuovo regolamento, con una serie di vantaggi per gli immigranti: un lotto di terra agricola da pagare in 10 anni, con due anni di carenza, viaggi gratuiti all’interno del paese; costruzione dell’abitazione; aiuto in denaro, sementi e strumenti per i primi tempi; assistenza medica e religiosa… Tramite queste misure si prevedeva l’ingresso di 350 mila coloni tedeschi, svizzeri e inglesi, cosa che però non accadde. A questo punto la crisi socioeconomica dell’Italia venne incontro ai piani dei latifondisti, e i poveri immigranti italiani finirono per essere accettati dai coltivatori, a volte controvoglia, come sostituti degli schiavi nelle piantagioni di caffè. Essendo però alto il numero di coloro che, attratti dalle disposizioni del 1867, tentarono di acquistare presto un lotto di terreno rurale, una disposizione del 1879 sospese la maggior parte degli aiuti offerti, lasciando solo l’aiuto per comprare la terra nel periodo di 10 anni e l’offerta di lavoro in opere pubbliche durante un certo periodo.

La campagna abolizionista riprese nuovamente nel 1885 e risultò chiaro che la schiavitù aveva i giorni contati. Sarebbe legalmente finito nel 1889, con il risultato che il Brasile fu l’ultimo paese dell’occidente a sopprimere questo odioso regime. Messo sotto pressione, lo stato riprese la colonizzazione, riorganizzando il servizio di censimento e vendita di lotti e facendo di nuovo campagna in Europa. Alla grande domanda brasiliana corrispose, per caso, il culmine della crisi italiana.

Il numero annuale di ingressi di cittadini dalla Penisola non superò fino al 1884 le 15mila persone. Nel 1885 furono 21.765; nel 1887, 40.175; nel 1888, 104.353; nel 1891, 132.326. Fino alla fine del secolo il numero non divenne mai inferiore ai 30mila. La grande maggioranza – più di quattro quinti – si diresse a San Paolo. Solamente 100 mila entrarono nel Rio Grande do Sul.

Gli Italiani nel Rio Grande do Sul

Tra il 1830 ed il 1844, l’immigrazione tedesca verso il Rio Grande do Sul fu quasi nulla, influenzata, tra l’altro, oltre che dalla legislazione, dalla prolungata Guerra dos Farrapos o Rivoluzione Farroupilha (1835-1845). A partire dal 1844, frattanto, tornó a crescere, perché fino al 1875, altri 19mila coloni tedeschi entrarono nella provincia.

Cogliendo l’occasione della donazione delle terre sancite dalla legge imperiale del 1848, l’amministrazione locale creò altre quattro colonie destinate ai tedeschi e organizzò il sistema legale dell’immigrazione e della colonizzazione. Nel 1869, dichiarando che erano già occupate le terre prececedentemente ricevute, la provincia chiese altri due appezzamenti di terra, per un totale di 32 leghe quadrate. La richiesta fu accettata nel febbraio del 1870, stipulando comunque, considerando la legge del 1850, il valore di un real per ogni braccio quadrato. Il presidente della provincia creò il 24 maggio 1870 le colonie Conde d’Eu e Dona Isabel, in omaggio al principe consorte e all’erede al trono. Le nuove colonie, situate fra i fiumi Caì e Antas, che più a nord hanno i campi di Vacaria e più al sud le colonie tedesche, erano stabilite nella terra accidentata della Serra Geral, con rilievi ripidi e vegetazione densa. Occuparle con gli immigrati sarebbe stato anche un modo di aprire gradualmente una strada di comunicazione con le terre del nord-est della provincia.

Il piano era ambizioso. Il successo della colonizzazione tedesca aveva portato il governo a pensare all’introduzione di 40 mila coloni dal Nord in un periodo di 10 anni. Visto che l’entitá dell’immigrazione spontanea era insignificante e il potere pubblico non si riteneva capace di cercare da solo emigranti in Europa, venne contrattato un armatore privato, che si impegnó a introdurre una media di quattro mila coloni annui. Alla stesso tempo, si cominciò la misurazione dei primi lotti a Conde d’Eu.

Il fallimento non si fece attendere. In Germania, da poco unificata, l’emigrazione veniva resa difficile e quelli che partivano optavano per gli Stati Uniti ed altri paesi, piú che il Brasile. E, anche quando la decisione ricadeva sull’impero brasiliano, le proposte del governo imperiale risultavano più attraenti di quelle del governo provinciale. Tra il 1872 ed il 1875, dunque, non arrivarono a quattro mila i contrattati dall’armatore. Di questi, moltissimi erano portoghesi, altri erano stati cercati fra gli emigranti verso Argentina e l’Uruguai, cosa che contrastava i termini del contratto. Invece di occupare i nuovi lotti che erano stati assegnati ai pochi, i coloni preferirono stabilirsi a valle, in prossimità dei loro compatrioti. Per questo, alla fine del 1874, c’erano solamente 19 famiglie, con un totale di 74 persone, che occupavano le nuove terre di Conde d’Eu.

Poiché i servizi di immigrazione dell’impero si erano nel frattempo rivolti all’Italia, si doveva far fronte alla mancanza di alloggi per un numero ben maggiore del previsto di immigranti destinati alle piantagioni di San Paolo. Considerando che la provincia non riusciva ad occupare le terre che aveva ricevuto, e che lentamente venivano misurate, e l’impero, che non aveva trovato posto per piazzare gli immigrati in eccesso, decise di indennizzare la provincia per le spese fatte fino ad allora e, nel 1875, assunse in proprio le due nuove colonie. Nel maggio dello stesso anno già cominciarono ad arrivare i primi immigranti. Erano italiani del nord. Già precedentemente erano stati introdotti coloni italiani. Dati del governo provinciale indicano che, tra il 1859 ed il 1875, 729 italiani entrarono nella provincia, essendo probabile che la maggior parte provenisse da Montevideo e da Buenos Aires e non si trattasse di agricoltori. Ma anche nei gruppi che l’armatore contrattato doveva trasportare c’erano circa dieci famiglie di italiani che, nel 1873, si contavano fra i coloni di Santa Maria da Soledade.

Fu per puro caso, quindi, e non per saggezza amministrativa, che ebbe inizio la colonizzazione italiana nel Rio Grande do Sul. Se fosse dipeso dalla provincia, l’area sarebbe stata occupata da tedeschi, francesi, inglesi e popoli nordici. Da parte dell’impero, le preferenze erano le stesse. Esisteva un serio pregiudizio rispetto alle nazionalità in Brasile, ed il Paese non aveva intenzione di creare colonie per portoghesi, spagnoli o italiani (e erano impensabili colonie per brasiliani o ex-schiavi). A causa della mancanza di forza lavoro per il caffè, l’impero fu costretto a cercare emigranti nel nord d’Italia, e cominciò così il periodo dell’immigrazione e della colonizzazione italiana anche nel Rio Grande do Sul.

Ancora in pieno secolo XX era necessario giustificare l’ingresso degli italiani nel Sud, e più di un intellettuale arrogante discettava sul destino di quello stato nella confederazione brasiliana, per il suo essere ariano, popolato da originari delle Azzorre – discendenti da germanici dispersi nel periodo delle crociate –, da tedeschi e da italiani del nord – essi stessi tedeschi, figli di invasori barbari al tramonto dell’impero romano!

Oltre alle colonie Conde d’Eu e Dona Isabel, già nel 1873 il governo imperiale aveva cominciato la misurazione di terre devolute ai margini del Rio Caì. Proseguendo i lavori, furono superati i limiti iniziali e, nel 1875, fu deciso di creare una ulteriore colonia che ricevette il nome di Fundos de Nova Palmira. La decisione del governo, datata marzo 1877, cambiò il suo nome, divenendo così colonia Caxias. Fu qui che si stabilirono i primi immigrati.

Due anni dopo avere assunto la colonizzazione, cioè nel 1877, il governo decise di creare una quarta colonia per immigranti italiani, utilizzando allo scopo terreni forestali nelle vicinanze di Santa Maria, dove c’erano stati già precedenti tentativi di colonizzazione. Sorse così la colonia Silveira Martins. Queste quattro colonie costituirono il nucleo dell’immigrazione agricola italiana nel Rio Grande do Sul.

Essendo occupate le terre di Conde d’Eu e Dona Isabel, i coloni cominciarono nel 1884 ad attraversare il rio das Antas, ed il governo creò la colonia di Alfredo Chaves. Nel 1885, riprendendo la colonizzazione a causa della campagna abolizionista, la colonia Caxias superò il fiume São Marcos e fu creata la colonia dallo stesso nome. In questo stesso periodo oltre al rio das Antas, apparve anche la colonia Antônio Prado. All’inizio degli anni ’90, oltre il fiume Carreiro, apparve la colonia Guaporé e, al lato destro di fiume Taquari, gruppi numerosi di immigrati crearono villaggi che più tardi si trasformeranno nel distretto municipale di Encantado.

A Silveira Martins, il territorio relativamente piccolo fu occupato in poco tempo, cosa che portò il potere pubblico a creare già negli anni ’80, il Nucleo Norte, l’attuale Ivorà, ed il Nucleo Soturno, attuale Nova Palma, e, poco più tardi, Jaguari, Toropi e Ijuì Grande.

C’era, peraltro, un serio problema: i costi della colonizzazione per le casse pubbliche. Perché se ne abbia un’idea, la colonia tedesca di São Leopoldo, con gli altri nuclei che la circondavano ricevette in 22 anni approssimativamente 500 contos di reis (1 conto equivale a 1 milione di reis). Le colonie italiane, invece, amministrate direttamente da Rio de Janeiro per mezzo del Ministero dell’Agricoltura, nel breve spazio di cinque anni, costarono alle casse imperiali 25,782 contos. La documentazione dell’epoca mostra un continuo avvicendamento nei posti di responsabilità dell’amministrazione delle colonie, con interventi nei quali tutti i funzionari venivano licenziati per corruzione. La soluzione adottata dal governo fu quella di emancipare le colonie, trasformandole in distretti di altri municipi già esistenti.

La prima fu la colonia di Silveira Martins, il cui territorio, relativamente piccolo, era stato colonizzato in breve tempo. Nel 1882 diventò il 5º distretto di Santa Maria. I nuclei vicini passarono, più tardi, distretti di São Martinho e Cachoeira do Sul. Caxias fu emancipata nel 1884, divenendo il 5º distretto di São Sebastião do Caì, cosí come Dona Isabel e Conde d’Eu furono trasformati in distretti di Montenegro. Giá nel 1890, Antônio Prado, divenne distretto di Vacaria.

Nel 1889, fu istituito in Brasile il regime repubblicano. La costituzione federale del 1891 trasferì alle provincie che divennero Stati, le terre devolute rimanenti e le responsabilità per la colonizzazione. Nel Rio Grande do Sul, le terre devolute si limitavano allora quasi esclusivamente all’Alto Uruguay dove, nel 1908, fu fondata la colonia di Erechim. Un’accordo tra lo stato e l’unione tentò di limitare il numero degli ingressi mensili. Peró, perché la crisi nella coltivazione del caffè impedisse alla stessa l’assorbimento di mano d’opera proveniente dall’immigrazione, come accaduto precedentemente, arrivarono in territorio gaucho ondate di immigranti per ferrovia. Predominarono in questo periodo i polacchi. Essendo occupate quasi tutte le zone boschive, il governo statale decretó, il 13 luglio 1914, la chiusura dell’immigrazione e della colonizzazione sovvenzionata nel Rio Grande do Sul. Terminava così un capitolo durato 90 anni.

A partire dal 1920, essendo divenute rare le terre devolute nel Rio Grande do Sul, cominciò un movimento di reimmigrazione, verso l’ovest di Santa Catarina e del Paranà, inizialmente lungo la ferrovia che costeggiava il Rio do Peixe. In alcuni Municipi di quegli stati, la quasi totalità degli abitanti è, ancor oggi, gaucha o discendente di gauchi. A partire dal decennio del 1970, l’Amazzonia divenne il nuovo obiettivo dei discendenti dagli immigranti dal Sud e, particolarmente, lo stato di Rondonia. Nel Rio Grande do Sul nel frattempo, mentre le aree delle vecchie colonie rimasero con una popolazione d’origine prevalentemente italiana, i discendenti degli immigrati si sparpagliarono negli altri municipi, esercitando varie professioni nelle città o diventando piantatori di soia, mais, grano e riso nelle fertili pianure dello stato. Su una popolazione di 10 milioni di abitanti, più di 2 milioni di gauchi hanno un cognome paterno italiano.

Nonostante tanti limiti, il Rio Grande do Sul, senza dubbio, fu lo stato che meglio seppe cogliere i benefici della colonizzazione, anche se non fu lo stato che accolse il maggior numero di immigrati. Dati riportati da Dietrich von Delhaes-Guenther (p. 36, 47, 55) presentano il seguente quadro dei gruppi principali di immigrati, entrati nei periodi in cui tali ingressi furono significativi:

Principali gruppi entrati nel Rio Grande do Sul (1824-1914)

 

Tedeschi

Italiani

Polacchi

Totale

1824-1874

24.873

24.873

1875-1879

2.440

8.579

11.019

1880-1884

1.257

8.993

10.230

1885-1889

2.159

26.133

28.292

1890-1894

6.065

21.591

16.188

52.370

1895-1899

1.648

4.613

2.082

10.437

1900-1904

1.036

2.336

466

5.182

1905-1909

2.068

1.687

6.498

12.893

1910-1914

6.498

2.256

17.308

31.735

1824-1914

48.044

76.168

42.561

187.031

Occorre osservare che queste statistiche, sopratutto del periodo imperiale, presentano lacune. Ci sono immigrati che non furono registrati, mentre altri, diretti verso una colonia, non vi arrivarono, senza che di essi si avessero più notizie. I dati quantitativi più attendibili si riferiscono agli ingressi di immigranti tedeschi, tra il 1824 ed il 1830. Le registrazioni degli immigranti italiani cominciano nel 1875 e si basano quasi esclusivamente sugli sbarchi a Porto Alegre e generalmente avviati verso le colonie. Ma i documenti ecclesiastici mostrano che fin dal 1820 apparivano nomi italiani nelle pubblicazioni di matrimoni o nelle registrazioni di battesimi. Un verbale del 1839 del Consiglio Comunale di Porto Alegre lamentava, inoltre, il fatto che il commercio della carne della città era monopolizzato dagli italiani, a danno dei consumatori. Il conte d’Eu, che si trovava nella comitiva dell’imperatore osservò nel 1865, all’epoca della marcia verso Uruguaiana, che la metà dei residenti di Livramento, una località di due mila abitanti, non era brasiliana, trattandosi di uruguaiani, argentini e europei, distinguendosi fra di loro gli italiani. Già nel 1871 furono fondati a Bagè la Società Italiana di Soccorso Mutuo e Beneficenza e nello stesso luogo, nel 1877, un’agenzia consolare per assistere l’area di frontiera Brasile-Uruguay. A Rio Grande, il porto marittimo della Provincia, esisteva nel 1867 un’agenzia consolare italiana (elevata a consolato nel 1871) per mezzo della quale 406 italiani spedirono una lettera firmata a D. Pedro II, di felicitazioni per la promulgazione della legge abolizionista. Nel 1873, fu fondata a Pelotas la Società Italiana Unione e Filantropia. A Santa Vitoria do Palmar vivevano italiani, radicati fin dal 1860. Molti individui sbarcati a Rio Grande, infatti, non erano stati registrati nella capitale della Provincia. Inoltre, il confine a Sud e a Ovest, rispettivamente con l’Uruguai e l’Argentina, fu la via d’accesso in Brasile per migliaia di italiani, non inclusi nelle statistiche ufficiali. Questi due casi riguardano più di dieci mila ingressi.

Per quanto riguarda la provenienza regionale, visto che il periodo della grande emigrazione nel Rio Grande do Sul coincise con la crisi socioeconomica del nord d’Italia, la grande maggioranza degli immigranti proveniva dal nord. Dal sud venne approssimativamente il 15% del totale, con un’importanza del tutto speciale per il Comune di Morano Calabro in provincia di Cosenza: ci sono più moranesi e discendenti di moranesi che vivono a Porto Alegre che nello stesso paese di Morano. L’immigrazione agricola – riguardante circa i ¾ del totale – proviene da localitá italiane non distanti fra loro: le province miste di Vicenza, Treviso e Verona e la provincia montuosa di Belluno nel Veneto; Cremona, Mantova, parte di Brescia e Bergamo in Lombardia; Trento nel Trentino-Alto Adige e, in Friuli-Venezia Giulia, Udine e Pordenone. Rilevamenti indicano le seguenti percentuali tra gli immigranti italiani agricoltori: dal Veneto: 54%; dalla Lombardia: 33%; da Trento: 7%; dal Friuli: 4,5%; da altre regioni: 1,5% (Frosi e Mioranza, 1975, p. 36).

L’Occupazione del Suolo

Diversamente dall’Italia, dove la grande maggioranza dei coltivatori viveva in piccoli villaggi e si recava a lavorare i campi durante il giorno e tornava a casa la sera, in Brasile il sistema di occupazione del suolo distribuiva le famiglie in maniera relativamente distante le une dalle altre. Approfittando dell’esperienza accumulata principalmente con la colonizzazione tedesca, il governo sviluppò un sistema di ripartizione dei terreni sancito nella legge del 1850. Tramite questo sistema, non era prevista solo la grandezza, ma anche la disposizione dei lotti rurali. La colonia fu divisa fondamentalmente in traverse o linee, che altro non erano se non una strada rettilinea di alcuni chilometri di lunghezza. Lungo la traversa si trovavano i lotti rurali, di circa 250 metri di larghezza e mille metri di lunghezza, che confinavano con i lotti di un’altra traversa. Vicino alla strada veniva costruita la residenza del colono, che, in media, distava approssimativamente 250 metri da quella del vicino. La misura del lotto variava a causa di forti declivi del suolo, esistenza o meno di fonti di acqua, o anche maggior o minor prossimità al nucleo urbano. La misura media era di 25 ettari, pur essendocene alcuni di soli 15 ettari ed altri che arrivavano fino a 35 ettari. Era però possibile acquisire solamente metà lotto o anche 1/4 o 1/8 dello stesso. A causa della povertà, della paura di non poter pagare o per paura che si trattasse di troppa terra, molti coloni non acquistarono il lotto intero. Il prezzo variava anche secondo la posizione, la vicinanza rispetto alle fonti d’acqua o la prossimità al villaggio o anche solo a seconda dell’arbitrio degli impiegati corrotti. Il tracciato della colonia prevedeva luoghi per una o più villaggi. In questi, le strade erano tracciate in linea retta, con trasversali che le tagliavano perpendicolarmente. Là stavano l’amministrazione della colonia, i pochi luso-brasiliani della zona e gli italiani che volevano esercitare mestieri diversi rispetto a quella di agricoltore.

L’interesse del potere pubblico nel cercare immigranti per il Rio Grande do Sul si orientava, dunque, sugli agricoltori. Quelli che lasciavano l’Italia, infatti, quasi sempre si dichiaravano agricoltori, anche se tra la dichiarazione e la realtà esisteva spesso una differenza. Furono molto numerosi gli individui a dichiararsi agricoltori, solo per essere accettati più facilmente, anche se venivano in Brasile con l’intenzione di esercitare un’altra attivitá. Da parte del governo, d’altro canto, c’era la preoccupazione di poter contare con il 10% circa di artigiani fra coloro che immigravano, questo per rendere funzionale il sistema di produzione della colonia.

Come in tutti i gruppi di immigrati, i nuovi venuti erano persone relativamente giovani. Secondo i dati, fra gli adulti della colonia Caxias, 2/3 degli uomini avevano tra i 20 e i 45 anni, idem per le donne tra i 20 e i 40 anni (Giron, 1976 p. 35). Il gruppo era costituito fondamentalmente da famiglie, distinguendosi da altri tipi di immigrazione, come quella per San Paolo, alla fine del’800. C’erano vedovi che portavano i loro figli e c’era gente sposata che lasciava la famiglia nella terra natale, per farla venire in seguito; c’erano scapoli che viaggiano con la famiglia dei loro parenti. Più dell’85% degli uomini adulti erano sposati. Famiglie costituite da poco, con un numero relativamente basso di bambini: poco più di due. Con il passare degli anni divennero numerosi i figli, diventando noto il tasso di fecondità della colonia italiana gaucha. Uno studio (Costa, 1996 p. 255 e segg.) che comparava l’età al momento del matrimonio ed il numero dei figli per ogni famiglia nei comuni della Provincia di Belluno – Arsiè (Fastro), Arten e Fonzaso – con i dati della colonia Dona Isabel, dove emigrarono molte persone di quei luoghi, costatatò che l’età media al momento del matrimonio era in Italia di 26,17 anni per gli uomini e di 23,06 per le donne; mentre in Brasile la media si abbassò a 24,44 per gli uomini e 19,65 per le donne. In questo modo, la differenza fra la media italiana di 8,25 figli per famiglia, rispetto a quella brasiliana di 10,81 figli, non troverebbe spiegazione nell’aumento del tasso di fertilità, ma nei circa 30 mesi di anticipo del matrimonio da parte delle donne immigrate in Brasile.

La Religione: un fattore di unificazione culturale

Nella quasi totalità gli italiani erano cattolici. In Italia praticavano una religione di natura contadina, adattata al mondo in cui vivevano, con molte feste, paramenti vistosi, canzoni, preghiere in latino, fuochi d’artificio, prediche solenni e frequenza ai sacramenti, con santi, campane, candele e processioni. Nel seno di questa fede la morale esaltava, fra le altre virtù, il lavoro come forma di guadagnare il pane, la pazienza nella sofferenza, il rispetto verso gli altri, mantenere la parola d’onore, la castità e l’amore verso il prossimo. Guardiano di questi precetti era il prete che, attraverso la predicazione e il confessionale, esercitava un forte controllo sul gruppo.

Nella foresta, invece, non esisteva né chiesa né prete, così come non c’erano tracce di cultura. L’associativismo dell’immigrato doveva creare un nuovo mondo culturale, per mezzo della ricostruzione del mondo religioso. Non era qualche cosa venuto fuori dal nulla, ma non era neanche la semplice trasposizione di quello che si faceva in Italia: valori e stili di vita si trasformarono e si adattarono.

Se devozioni individuali e familiari rimanevano inalterate e, a casa, tutte le sere, si recitava la corona (il rosario), la domenica si notava la distanza fra il mondo che era rimasto in Italia e quello in America. Il giorno del vestito domenicale, dell’incontro con gli amici, della messa solenne, della bevuta all’osteria, delle conversazioni fra vicini di casa e corteggiamenti, si trasformò in un giorno di pungente nostalgia. Per dimenticarla e, allo stesso tempo, mantenerla viva, si visitava il vicino di casa, si raccontavano storie, si commentavano le poche notizie ricevute e si pregava di fronte ad un ritratto o una statua, portata dalla terra natia. Non passò molto tempo che sorse l’idea della costruzione di una piccola chiesa. Qualche volta, sorgevano divisioni e dispute al momento di scegliere il luogo della costruzione, il materiale da usare (legno, mattoni o pietra) o il santo patrono. E quando non si giungeva ad un accordo, anche sommando due o tre patroni, si finiva per costruire più di una cappella nella stessa traversa. Se ancora non fosse esistito un cimitero, lo si costruiva vicino al tempio. Poco dopo, sarebbero sorti il campanile e la sala per le feste. Nella cappella, a volte funzionava una scuola rudimentale. L’unione del gruppo rendeva possibili progressivi miglioramenti, l’acquisto di arredi sacri, di panche, di campane… L’amministrazione e la preparazione delle feste toccava ai fabbricieri, scelti dalla comunità. Il culto comunitario, in mancanza di un prete, assumeva caratteristiche laiche, perché il rosario domenicale era recitato da un laico, anche questo scelto dal gruppo. La catechesi era impartita da qualcunopiú istruito. Il cerimoniale della settimana santa e dei funerali era presieduto da chi già aveva avuto esperienza come cantore o sagrestano in Italia. Al leader religioso – che preparava anche le persone nel momento della morte, portandoli alla riconciliazione coi parenti e vicini di casa ed alla disposizione testamentaria dei beni – spettava anche dare quei consigli che corrispondevano a quelli che un prete avrebbe impartito per mezzo del sacramento della confessione. I contadini lo chiamavano nostro prete, o prete de scapoera (il nostro prete, o prete della foresta). Non era raro il caso in cui, in disaccordo col prete che di tanto in tanto veniva dalla città, i contadini rivolgevano un appello al vescovo, dicendo che preferivano el nostro prete (il nostro prete) a quello che il vescovo aveva inviato.

Fenomeno tipico, in questa atmosfera intensa dell’immigrazione italiana, la cappella non veniva a significare solamente un luogo di culto. All’interno di un modello di organizzazione spontanea, si trasformò nel centro sociale della traversa e finì perfino per sostituirla come punto di riferimento. Organizzata e guidata dai coloni, differiva tanto dalla chiesa dell’antico Brasile coloniale, che era proprietà del signore della terra, esattamente come le piantagioni di zucchero e le case dei lavoratori, quanto dalla chiesa parrocchiale, fatta costruire dal vescovo e guidata da un prete da lui nominato. Ancora oggi, la diocesi di Caxias do Sul possiede l’area rurale organizzata in cappelle: sono circa 650.

La stessa comunità che aveva costruito la cappella e aveva organizzato anche il servizio religioso sceglieva un’autorità civile e sociale, il cosiddetto capo-linea (il capo della traversa). Doveva conciliare possibili liti, conflitti di terre, lamentele per l’invasione della piantagione da parte degli animali del vicino, o del fuoco che era passato da un campo all’altro, ecc. Se il nostro prete doveva essere una persona pia, dedita alla preghiera ed esperto dei problemi della religione ci si aspettava dal capo-linea capacità di comando, obiettività e temperamento conciliatore. Cercava di fare in modo che i conflitti fossero risolti il più presto possibile, per evitare che due famiglie in disaccordo potessero danneggiare l’andamento ed il buon nome della comunità. Veniva criticato chi si fosse rivolto al giudice, alla polizia, al sindaco, invece di risolvere il conflitto in loco. L’eccezione era costituita dall’appello al prete, di cui si rispettava un’autorità quasi divina. Tanto nell’area rurale che in quella urbana, i casi più difficili venivano portati da lui, e la sua parola era definitiva. Alcuni sacerdoti che per molti anni lavorarono in una comunità (molti di loro venuti dall’Italia), vengono ricordati fino ad oggi per la loro bontá, le loro frasi spiritose, la saggezza di vita ed anche per l’abilità politica, che era capace di dare ragione alle due parti.

La religione del colono era radicata in una profonda pietá interiore. Dall’altro lato si manteneva, come in patria, legata a fatti esteriori: candele, fuochi, canzoni, cerimonie e le immagini dei santi. Gli altari di oltremare erano pieni di statue, molte di quelle ritenute miracolose. Là stava la Madonna, oggetto di molte invocazioni; là stavano i santi, ognuno dei quali era pronto ad assistere qualche umana necessitá: Sant’ Antonio, l’intermediatore di matrimoni e medico di tutti i mali; San Pietro, il primo papa e patrono dell’autorità ecclesiastica; Santa Lucia, vergine e martire, protettrice degli occhi; Santa Rita da Cascia, la santa delle cose impossibili; San Giuseppe, patrono del lavoro. E arrivarono anche i santi dei villaggi locali: San Vigilio, i Santi Vittore e Corona, Santo Isidoro, San Rocco, San Valentino, San Giorgio… C’erano anche gli angeli. Un esercito di intercessori davanti a Dio. Alcuni potevano di più, altri di meno e ci fu anche il caso della ricostruzione di una cappella, distrutta dal vento forte quando un contadino propose che si cambiasse il patrono, Parché quel li no l’è stà gnanca bon de tender la so cesa (Perché quello lì non era neanche capace di prendersi cura della propria chiesa).

Vennero delle statue dall’Italia, ma erano poche. Fu necessario ricorrere all’abilità dell’artigiano, capace scolpire nel legno le immagini della devozione del popolo. C’erano anche artisti venuti dell’Italia, come Tarquinio Zambelli che fece epoca a Caxias. In generale, comunque, lo scultore era un santaro (santeiro), un coltivatore abile, ma senza una grande conoscenza di teoria artistica. C’erano statue complete, e anche immagini di roca, che possedevano solamente testa e mani, con il resto del corpo composto da un fusto di legno o di ferro, coperto di stoffa. Le facce dei santi non differirono molto fra loro, ma dagli indumenti e da altre caratteristiche si indovinava di chi si trattava: un frate senza barba, col bambin Gesù in collo, era Santo Antonio; un vecchio barbuto con un mazzo di chiavi era San Pietro; un povero con una ferita nella gamba ed un cagnolino, San Rocco; un altro con un maialino al lato Santo Antonio; una signora, vicino ad una ruota di mulino, Santa Caterina. Si poteva anche, per sicurezza, scrivere il nome sul piedistallo. Nella spontaneitá di questi lavori, molte volte si nascondevano vere vocazioni artistiche.

La Lingua e la Scuola

Pochi immigranti conoscevano la lingua ufficiale dell’Italia. Non sarebbe stato in Brasile che si sarebbero presi il lusso di imparare l’italiano grammaticale, loro che erano diventati italiani proprio lasciando la terra nativa, perché là si riconoscevano come bellunesi, veronesi, vicentini, bergamaschi… mai come italiani.

La convivenza fra immigrati di varie provenienze, in una situazione di isolamento, con poche scuole fondate da loro stessi dove si insegnava più dialetto che italiano o portoghese, con prediche religiose in italiano, con le autorità brasiliane che spesso tentavano di esprimersi nella loro lingua: tutto questo portò ad un processo di fusione fra i diversi dialetti, creando una lingua comune, alla quale si aggiungevano parole di provenienza portoghese. Si tratta di un dialetto nuovo, simile, ma non identico ai dialetti triveneti e lombardi, e che seguí una propria evoluzione, nella misura in cui rallentarono l’arrivo di nuovi immigranti e le comunicazioni con l’Italia. Col passare degli anni, mentre italiano ufficiale perdeva ancora più l’importanza nell’insegnamento e nella predicazione, il dialetto andava occupando spazi nuovi, divenendo lingua libera, in cui si scrivevano giornali, si pregava e si commerciava. La situazione di insularità e la relativa autosufficienza delle colonie favorirono la sopravvivenza della lingua generale, colpita solamente quando si verificò la campagna per la nazionalizzazione delle scuole e la proibizione di esprimersi in lingua straniera, alla fine degli anni ‘30. Anche così, nelle aree rurali, è la lingua abituale di comunicazione, principalmente fra i più anziani e dovunque ci siano discendenti di coloni italiani gauchi, da Santa Catarina all’Amazzonia, si parla, si canta e, a volte, si bestemmia in dialetto.

Nel 1924, il grande giornale della colonia Staffetta Riograndense, oggi Correio Riograndense, cominciò la pubblicazione, in dialetto, di una serie di storie del frate cappuccino Achille Bernardi, noto come Frei Paulino di Caxias, che aveva come personaggio principale il soggetto che ha dato nome al lavoro: Nanetto Pipetta. Il successo fu immediato, come fu possibile verificare dall’aumento del numero di abbonati del periodico. Comunque, cambiando la direzione, questa richiese all’autore che “desse l’olio santo a Nanetto“, perché voleva pubblicare un testo più serio: Robinson Crusoe, in italiano corretto. Ma i lettori non dimenticarono mai Nanetto, l’eroe goffo e sfortunato in cui si riconobbero nelle peripezie del viaggio per mare, e nell’adattamento ad una nuova patria. Dietro insistenza fu lanciato, nel 1937, il libro Vita e stòria de Nanetto Pipetta, nassuo in Itàlia e vegnudo in Mèrica per catare la cucagna. Nel 1975, la quarta edizione commemorò il centenario dell’immigrazione italiana nello Stato. E nel 1990, fu pubblicata la 9a edizione di questo lavoro, considerata dalla critica come il migliore e più importante testo dell’immigrazione italiana. Lo stesso giornale pubblicò anche il romanzo a puntate Togno Brusafrati, di Ricardo D. Liberali, e, anni dopo, Stòria de Nino, di Aquiles Bernardi. Dopo il 1975, si rianimò l’interesse per la storia regionale e per il dialetto. Fra le numerosissime opere menzionate, bisogna ricordare i Poemas de um imigrante italiano (1876), di Angelo Giusti, un colono che conobbe le origini della vita nella nuova terra, ed Os pesos e as medidas (1981), in un dialetto di stampo urbano, di Italo Balen, certamente il miglior poeta dialettaIle della colonia italiana.

Oggi, se, da un lato, i mezzi di comunicazione, e l’universalizzazione dell’insegnamento in lingua portoghese fanno sì che le giovani generazioni provano difficoltà nel parlare il dialetto, dall’altro si percepisce un nuovo interesse per questa lingua. Rubriche di giornali, programmi radiofonici, teatro ed anche la messa in dialetto, oltre l’insegnamento in alcune scuole, mostrano la forza di una lingua che, orgogliosa, arriva persino su adesivi per le automobili, dove si legge: Parlar Talian o Talian la nostra lìngua

In alcuni piccole localitá, dovettero imparar a balar coi orsi (imparare a ballare con gli orsi), perché altrimenti non si sarebbero fatti capire. A Serafina Corrêa, ha luogo tutti gli anni la settimana del municipio, quando la lingua ufficiale è il talian, addirittura per gli atti dell’amministrazione pubblica.

Quando il soggetto è la lingua parlata da un gruppo, viene subito in mente la scuola. A questo proposito, il gruppo degli immigrati aveva un concetto molto definito dell’istruzione formale. È facile trovare affermazioni che indicano l’italiano come contrario alla scuola, considerata meno importante del lavoro. In realtà ciò che non ammetteva era una scuola che impedisse il lavoro o allontanasse da esso, soprattutto nella periodo della semina e del raccolto, o una scuola che non servisse per la vita, che non fosse centrata sul trinomio: leggere–scrivere–far di conto, tre elementi necessari alla comunicazione e alla gestione dei propri affari. Lo studio doveva rispondere alle esigenze del lavoro, ed a molti sembrava che i figli, anche con poca istruzione, avessero imparato abbastanza per la vita, principalmente quando il padre, quasi analfabeta, vedeva quanto era riuscito ad accumulare. Uno studio soltanto teorico non aveva senso. Mi son omo de pràtica e nò de gramàtica (Io sono uomo di pratica e non di grammatica), dicevano tanto gli agricoltori quanto i commercianti e gli artigiani. Un legame eccessivo con lo studio non passava neanche per la testa dei rudi lavoratori, che consigliavano ai loro figli: Basta de libri desso, che non te magni mia libri sta sera (Basta coi libri adesso, perché stasera non mangerai mica libri). Forse il caso più significativo del pragmatismo italiano di fronte alla scuola è il racconto del missionario cappuccino frate Bernardin d’Apremont. A causa dell’insistenza del frate, un contadino decise di iscrivere i suoi due figli a scuola, ma fece la proposta seguente: avrebbe pagato solo un’iscrizione, e i figli si sarebbero alternati nell’andare a scuola, un giorno l’uno e un giorno l’altro. Così lui avrebbe risparmiato i soldi ed i suoi due figli avrebbero imparato a leggere, scrivere e far di conto, ed uno di loro sarebbe rimasto sempre a casa, per aiutare nel lavoro dei campi.

Ciononostante, fu relativamente grande il numero di scuole costruito dagli immigrati da soli o con l’aiuto della chiesa e delle autorità. Se la colonia tedesca contò su di un migliore sistema scolastico di quella quella italiana, questa, comunque superò di molto l’area luso-brasiliana. Si trattava di solito di scuole con un unico insegnante. Qualche volta, il maestro era una persona malata che non poteva lavorare al campo come gli altri; altre volte si trattava di qualcuno che in Italia aveva frequentato le classi per più tempo. In alcune scuole pubbliche, l’insegnante parlava solamente in portoghese e non riusciva a comunicare con gli studenti, che abbandonavano facilmente la classe. In altre, il corso era trilingue: l’insegnante aveva un manuale in italiano da cui traduceva in portoghese e poi, per spiegare meglio, in talian. Così, lo studente veniva a sapere che per pioggia i brasiliani dicevano chuva, che nient’altro era, infine, che la piova, nel talian.

La lingua familiare, a predominanza veneta, si andò strutturando come lingua autonoma, integrando i diversi dialetti triveneti e lombardi, ed oggi è conosciuta come talian. La campagna di nazionalizzazione dello Stato Nuovo e la seconda guerra mondiale, fecero tacere l’italiano grammaticale negli atti pubblici, raduni e feste, e così il talian restó l’unica lingua della famiglia e, oggi, è il grande traduttore della vita e della storia degli immigrati italiani e dei loro discendenti.

Il Progetto di Vita

L’abbandono governativo dei primi tempi, con tutto quello che aveva di negativo, fu, comunque, una delle ragioni del mantenimento dell’identità italiana e servì a mettere l’immigrante di fronte ad un dilemma: o lottava con tutte le forze per sopravvivere, o sarebbe stato immediatamente travolto dalla durezza della vita di quei primi tempi. Alla sfida rispose rielaborando un mondo di valori nel quale la proprietà, la parsimonia ed il lavoro occuparono luoghi dominanti.
Dal fondo della terra, l’immigrante risorse come proprietario rurale e cessava di essere il contadino di oltremare. La terra per lui non significò mai un’impresa finanziaria, rappresentando molto più di un luogo per lavorare e vivere: era il simbolo della redenzione economica, della libertà e dell’ascesa sociale. La patria fu abbandonata, perché vi mancava la prospettiva di poter divenire proprietario, come – secondo la propaganda – era possibile fare in Brasile e come, infatti, stava accadendo nel Rio Grande do Sul. “La mia colonia”, “qui ognuno è proprietario del proprio naso”, “io sono ricco come un conte”, “qui chi vuole comandare deve pagare” sono espressioni dei coloni, che traducono molto bene il fascino che alcuni ettari di foresta esercitarono su quella povera gente. E quando un giovane pensava di sposarsi, inizialmente doveva cercare una proprietà nella quale guadagnarsi la vita, perché sembrava vergognoso lavorare alle dipendenze di qualcuno, quando c’era la possibilità di essere un coltivatore autonomo. Questa mentalità spiega, in parte, la ricerca continua di nuove terre, dove gli individui potessero essere proprietari e forse è ancora oggi una delle basi dei movimenti dei lavoratori senza terra.
Ma la terra non è niente senza il lavoro. A poco sarebbero servite le peripezie del viaggio e l’acquisizione del campo, se questo non fosse stato lavorato. Pertanto era necessario uno sforzo di chi la comprava. La terra non era un dono, era una conquista, e il conquistatore era il braccio del colono, che non risparmiava sacrifici, ignorava le intemperie, lavorava dall’alba al tramonto – o meglio, da stella a stella, come alcuni preferivano dire.

Il lavoro appariva, così, come fonte di libertà, come un valore mitico che contiene in se il segreto della dignità e dell’onorabilità. Rappresentava, in un certo modo, la somma di tutte le virtù o, almeno, era capace di scusare qualcuno per i vizi che avesse potuto avere, come abuso di alcol, scoppi d’ ira, bestemmie e perfino, nel caso delle donne, una scarsa bellezza. Molte volte veniva detto di un giovane in cerca di moglie che il ragazzo era povero, ma lavoratore, o che la ragazza era bella, ma non sapeva fare niente. C’è chi afferma che i preconcetti dell’italiano nei confronti del negro non erano legati al colore, ma alla importanza minore che questi dava al lavoro. Non era senza una certa invidia che è stata detto di una famiglia: I laora come orsi, ma i ga de tuto (Lavorano duramente, come orsi, ma possiedono di tutto).

Se alcuni individui che non erano nati ricchi, avevano fatto fortuna con il lavoro, perché escludere a priori la possibilità di arricchire tramite quello che sembrava l’unico mezzo legittimo per fare fortuna? In quelle circostanze a molti riuscì, senza dubbio, di raggiungere un livello di vita ragionevole e alcuni riuscirono anche ad accumulare molti beni. Quelli che, partendo dal nulla, raggiunsero la ricchezza, divennero consiglieri e arbitri della popolazione, meritando di essere ascoltati perfino dal clero.

Parallela al lavoro, camminava la parsimonia, lo spirito di economia che conservava il fiasco vuoto, il chiodo arrugginito, il vestito ridotto a uno straccio; che raccoglieva i chicchi di grano caduti e risparmiava i centesimi. La vita difficile dell’Italia li aveva educati così per poter sopravvivere; non sarebbe stata la situazione più favorevole del Brasile a cambiare le loro abitudini. Quello che non aveva dato la nascita, doveva arrivare dal lavoro e dall’economia. Ed in questo l’italiano si sentiva diverso dal luso-brasiliano, a cui recriminava la prodigalitá con cui spendeva denaro e, qualche volta, sprecava la fortuna.

Nella solitudine della foresta, però, l’individuo da solo non avrebbe resistito. L’appoggio reciproco che crebbe nel focolare domestico, cementò una notevole solidarietà familiare. La famiglia monogamica, di diritto e di fatto, portava la sua organizzazione da oltremare, in cui si costituiva già il nucleo della produzione, nel solco del vecchio modello della grande famiglia patriarcale, con molti figli, generi, nuore e altri parenti. In terra gaucha, i figli, man mano che si sposavano, cercavano di acquisire la propria colonia, e l’ultimo di essi, secondo la consuetudine, restava a vivere con i genitori, ereditando la proprietá , in genere, indennizzando gli altri fratelli. Il padre rappresentava la piú grande autorità, quello che determinava i lavori, amministrava i beni, trattava e gestiva il denaro. Spettava alla madre il lavoro domestico, la cura dei bambini piccoli, oltre ad accompagnare il marito a lavorare nei camp, quando possibile. A volte assumeva il comando della famiglia, e allora si sentivano i vicini commentare: La cesa la ze pi alta del campanile (La chiesa è più alta del campanile).

Il lungo viaggio per mare, le peripezie del cammino e della vita nei travessões, crearono nei primi tempi nuove forme di solidarietà che andavano oltre la solidarietá familiare. Il gruppo faceva una colletta quando un contadino si ammalava. La conservazione delle strade vicinali fu possibile solamente con la collaborazione di tutti. In occasione della prima morte, un accordo fra i vicini stabiliva il luogo del cimitero. Senza avere a chi appellarsi, senza disporre di modelli pronti, il gruppo dovette trovare risposte alle necessità culturali, religiose, sportive ed amministrative, dovette scegliere i propri capi e attribuire loro il potere amministrare e promuovere il bene comune.

La Medicina quando non c’era Medico

In origine, le distanze, a causa della pessime vie di comunicazione, erano enormi, e le risorse scarse. Mancavano gli ospedali, quasi non c’erano medici. Alcuni di loro lasciarono una fama legata alla loro competenza e al loro impegno; per altri non si può dire lo stesso. Molti erano semplici ciarlatani, a cui si debbono detti come: Sbàglio del dotor, volontà de Dio; o Sbàglio del dotor el cemitero paga (Sbaglio del dottore, volontà di Dio. Sbaglio del dottore, cimitero paga).

In questa situazione, si sviluppò una medicina domestica basata sulle consuetudini portate, sulle tradizioni delle popolazioni locali e sulle esperienze che si facevano nella nuova realtà. Appartennero a questa medicina l’uso di piante del luogo, nell’ambito di un ricettario nel quale fu contemplato ogni tipo di malattia e che includeva anche compresse, bagni, cataplasmi, clisteri e purganti.

Furono importanti tre professioni al servizio della salute: la parteira, il giusta-ossi e la benzedeira. La parteira (ostetrica o levatrice), con la sua esperienza accumulata negli anni, era una persona indispensabile tra famiglie con molti figli. Nelle città e nei villaggi, non si cosiderava il parto come un caso che dovesse essere assistito da un medico. Spettava all’ostetrica guidare la futura madre durante la gravidanza e assisterla durante la nascita del figlio. Tecniche trasmesse per generazioni, comprese misure di igiene, la pratica continua e la dedizione al lavoro, spiegano perché erano rari i casi di morte della madre o del figlio nei travagli del parto.

Una figura che sopravvive al tempo e alla medicina ufficiale è il giusta-ossi. Era una tradizione in Italia, tramandata da padre in figlio. Persone essenzialmente pratiche ricomponevano fratture, guarivano slogature e distorsioni, usando solo il tatto e rimedi naturali. Alcuni usavano la forza e allora si vedeva il povero paziente, con la gamba rotta, che beveva una bottiglia di cachaça, tenuto da tre o quattro persone del vicinato, mentre il giusta-ossi gli ricomponeva l’arto. Altri, lavorando con acqua tiepida e massaggi, agivano in maniera molto meno dolorosa. In molte zone il loro lavoro veniva riconosciuto dagli stessi medici. Ancora oggi, questi chiropratici possiedono una fedele clientela.

Dall’Agricoltura all’Industria

Gli immigranti italiani destinati al Rio Grande do Sul venivano ricercati in Europa con lo specifico scopo di divenire produttori agricoli in piccole proprietà. Non interessava al governo vederli come allevatori di bestiame – l’attività dominante delle grandi fattorie del Sud – né come monocultori di prodotti che il Sud-est o il Nord-est del paese producevano in abbondanza e esportavano in tutto il mondo, come il caffè e lo zucchero. La loro funzione doveva essere complementare e produrre per il consumo interno del paese. E così accadde: in pochi anni, dove prima c’era la foresta vergine, nacquero le piantagioni. Consoli, agenti del governo o visitatori, tutti si entusiasmavano con il successo dell’agricoltura dei coloni. Il console Pascoale Corte, in un documento elaborato per l’esposizione di Torino, presentava nel 1884 la seguente statistica:

Produzione agricola delle colonie nel 1884*

 

Abitanti

Equini

Bovini

Suini

Grano

Fagioli

Mais

Vino

Caxias

12.540

10.700

3.500

12.000

1.200

1.600

3.200

2.900

D. Isabel

8.339

11.700

3.800

12.000

1.445

1.736

3.011

2.795

C. d’Eu

6.036

1.732

701

8.422

794

1.608

3.556

2.759

S. Martins

6.001

2.000

1.000

10.000

1.200

1.600

3.200

2.900

TOTALE

32.916

26.132

9.001

42.422

4.639

6.534

12.967

11.354

* animali in unità, cereali in tonnellate, vino in litri.

Nelle sue coltivazioni, pertanto, il colono cercava di ottenere generi necessari alla famiglia e solamente dopo aver soddisfatto le necessità del consumo familiare, si disponeva a immettere sul mercato le eccedenze, che, dovevano sopperire alle necessità del mercato regionale e nazionale, ma non per ottenere valute dall’esportazione. Sorse così un mercato interno, accessibile ai piccoli proprietari.

Il sistema di coltivazione – che imitava in questo la colonizzazione tedesca, che, a sua volta, aveva appreso molto anche dagli indigeni – era quello del disboscamento e dell’incendio della foresta, con l’adozione solo successiva della rotazione delle colture, così che una parte della proprietà riposasse sempre, in modo da permettere una nuova crescita della boscaglia che poi sarebbe stata tagliata nuovamente, ripetendo la pratica dell’incendio. La tecnica, per quanto primitiva e per quanto rapprentasse un regresso rispetto a quanto si praticava in Europa, era l’unica possibile al momento, ed il suolo della foresta vergine, all’inizio, consentiva raccolti fertili.

Prodotti caratteristici della colonia italiana furono grano, vino e mais. Nessuno di questi introdotto dall’immigrante italiano, perché il Rio Grande do Sul giá li aveva fin dai tempi delle riduzioni dei gesuiti, anche se in scala ridotta. Il grano era intensamente coltivato dagli immigrati dalle Azzorre ed all’inizio del secolo XIX la provincia lo esportava verso il resto del paese e verso l’estero. Quando il grano fu copito dalla ruggine, i coltivatori si disinteres-sarono rapidamente della sua coltura e, anni dopo, il Rio Grande do Sul tornò ad importare questo cereale. Passarono molti anni prima che il grano tornasse a essere coltivato nello Stato, fino a ottenere risultati soddisfacenti, sia a causa dello scarso interesse da parte delle autorità, sia per la mancanza di tecnica e di buone sementi. Fu nella regione di immigrazione italiana che la coltura finì per trionfare. Nel 1909, la produzione era di 15.250 tonnellate, che raggiunsero le 110 mila nel 1923, e le 248 mila nel 1948. In seguito, l’introduzione di macchine agricole fece sì che il centro produttore, fin dagli anni ’50, passasse dall’area montagnosa della Serra alle terre ondulate del Planalto e delle Missioni, aumentando l’area coltivata dello Stato da 120 mila ettari, nel 1920, a 5 milioni di ettari nel 1950 e a 14,6 milioni di ettari nel 1970.

Il mais fu materia prima per la polenta, il piatto più noto degli immigrati. Fu coltivato fin dall’inizio, perché permetteva l’allevamento di suini, grazie ai quali i coloni potevano contare sul grasso e sulle specie più diverse di salami e prosciutti. Sorsero, e ancora operano nella zona, numerosissimi frigoriferi destinati all’industrializzazione dei prodotti suini, ma l’allevamento e la macellazione del pollame divenne l’attività principale.

Ció che caratterizzó, comunque, la colonizzazione italiana, fu la coltivazione dell’uva e la produzione del vino. Al 1875, le esperienze nel Rio Grande do Sul fino non erano state molto significative, e il prodotto era di bassa qualità. Poco prima della Guerra dei Farrapos (1835-1845), furono introdotte nella provincia delle specie americane, fra le quali la Isabel. L’interesse dello Stato e la ricerca di canali commerciali all’inizio del secolo XX, incentivarono l’importazione di specie diverse, mentre venivano contemporaneamente fondati istituti di enologia. I coloni costituivano cooperative vinicole per superare le difficoltà comuni. Con questo, la produzione andò crescendo e migliorando. Nel 1920, erano coltivati 11.380 ettari, 25.523 nel 1950 e 47.682 nel 1970. Oggi, la produzione di vino nello Stato supera i 200 milioni di litri, provenienti nella quasi totalità dall’area della colonizzazione italiana, dove circa 80 mila persone si dedicano alla vitivinicoltura. L’arrivo di imprese multinazionali e l’apertura all’Argentina ed al Cile hanno colpito i produttori, ma il miglioramento dei prezzi interni è motivo di nuove speranze per il settore. Attualmente circa l’80% di tutta la produzione brasiliana di vino viene dalla colonia italiana gaucha, di fatti la Festa dell’ Uva di Caxias do Sul è la più grande festa agricola del paese. Anche le altre città dell’immigrazione realizzano le loro feste dell’uva e del vino, con grande successo turistico.

 

Col passare del tempo, peraltro, si ebbe una trasformazione integrale nella colonia italiana che da agricola divenne industriale. Isolati, con poche risorse in un’area di difficile accesso, in un paese con poche industrie, gli italiani – come avevano giá fatto i tedeschi – si avvalsero della loro abilità artigianale, per fare fronte a molte necessità. Nel Vecchio Mondo, quando era impossibile praticare l’agricoltura nei mesi invernali, buona parte del tempo veniva dedicata alla preparazione di utensili e strumenti. Queste tecniche, anche se rudimentali, si rivelarono successivamente di grande valore. Ci fu un fiorire generale dell’artigianato sia nei villaggi che nelle aree rurali, fin dalle origini. Nella colonia di Caxias c’era già nel 1884 la seguente lista di arti e mestieri: commercianti, 25; sensali, sei; insegnanti, cinque; panettieri, quattro; vasai, due; santari, uno; musicisti, tre; pittori, tre; arrotini, uno; farmacisti, due; mugnai, uno; macellai, tre; orologiai, uno; ingegneri, uno; calzolai, otto; carrettieri, due; albergatori, sei; fabbricanti, sei; fabbri ferrai, cinque (Giron, 1976 p. 33). Un anno prima, visitando Conde d’Eu, il console Enrico Perrod costatava che il luogo contava di un’industria agricola forte, così divisa: tre fabbriche di mattoni, 20 mulini ad acqua, una segheria a vapore, quattro segherie ad acqua, due fabbriche di birra, 12 botteghe, due fabbri ferrai, due calzolai, due sarti, due falegnami. A Dona Isabel c’erano nel frattempo 40 botteghe, tre fabbri ferrai, un macellaio, un albergo, quattro calzolai, due sarti, quattro fabbriche di liquori, quattro fabbriche di birra, una falegnameria, quattro fabbriche di mattoni, una fabbrica di ceramica, una concia, 60 mulini idraulici, una segheria ad acqua, un mulino per la canna da zucchero.

Questa economia familiare, che avrebbe mostrato una crescita ancora maggiore per molti anni, cominciò a diminuire, nella misura in cui l’economia coloniale si inseriva nell’economia di mercato e l’artigianato coloniale veniva sostituito da prodotti offerti dai commercianti. I negozi acquisirono una importanza sempre maggiore. Note come casas de negòcio erano base di un sistema che raggruppava le funzioni oggi attribuite al supermercato, alla banca, alla impresa di trasporti e alla manifattura di prodotti primari. Il colono vi trovava tutto quello di cui aveva bisogno e vi affidava i propri prodotti, dal momento che le difficoltà di trasporto gli impedivano di ricorrere direttamente ai centri di consumo. Nei libri di contabilità del commerciante c’era una pagina per ogni cliente e vi si annotavano i prodotti cosegnati come credito e, come debito, gli acquisti che erano fatti nel corso dell’anno. Il colono arrivava ad affidare al commerciante anche i propri risparmi e questo, da parte sua, effettuava pagamenti a terzi per conto del colono. Molti negozi avevano l’attrezzatura per macinare il grano ed il mais, per macellare i maiali e per la preparazione del vino. Con l’arricchimento ottenuto grazie all’accumulazione di capitale derivanti dalle transazioni commerciali, i commercianti investirono parte dei profitti in alcuni rami dell’industria, principalmente in imprese vinicole e in falegnamerie, cerealicole e prodotti suini. Queste ditte si concentravano sempre più nelle aree urbane. Parallelamente, un artigianato urbano di origini antiche si sviluppò, adattandosi alle nuove situazioni. Alcune industrie molitorie e vinicole, così come buona parte delle industrie metalmeccaniche, sembrano provenire piú dall’artiginato che dal commercio. All’inzio l’industria metalmeccanica lavoró su ordinazione o variando la produzione secondo le stagioni. Si consolidò, poi, durante le due guerre mondiali, per le difficoltà delle importazioni.

Il processo di accelerazione dell’industrializzazione del Brasile, a partire dal governo Kubistchek, alla fine degli anni ’50 e all’inizio degli anni’60, influenzó favorevolmente la zona coloniale italiana, dove il numero delle fabbriche, alcune di grande dimensione, è, proporzionalmente, uno dei più alti del paese. Se, durante gli anni ’40 e gli anni ’50 la regione coloniale si aprì verso il Brasile, si può rilevare in seguito, principalmente dopo il 1980, un’apertura verso il mondo. Le imprese fondate e amministrate da italiani e dai loro discendenti impegnate in questo lavoro, esprimono la crescente presenza ed il significato del lavoro italiano nel Rio Grande do Sul.

* Luís Alberto De Boni

è professore di filosofia, saggista, ricercatore e scrittore
* Frei Rovilio Costa
è ricercatore e scrittore dell’immigrazione italiana

Riferimenti Bibliografici

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