L’Emilia Romagna alla III Fiera Intenazionale dell’Amazzonia – Vetrina di opportunità

u MANAUS-AM – Tra il  31 maggio  e il 1° giugno scorsi è stato realizzato un incontro a Modena con il mondo impresariale, il primo in un grande auditorio messo a disposizione  dalla Banca Emilia-Romagna che ha partecipato come sponsor, la missione brasiliana guidata dalla Suframa  ha presentato tutte le opportunità offerte dalla Zona Franca di Manaus.

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Ora sono qui nella III Fiera Internazionale dell’Amazzonia – ci dice Giovanni Pratelli –  con un consigliere della Camera di Commercio di Modena e 9 imprenditori per studiare la possibilità di intervenire in questa realtà. Presso la Suframa (Superintendenza della Zona Franca di Manaus) sarà aperto uno sportello della Camera di Commercio di Modena, quindi sta nascendo un rapporto con le istituzioni locali, potendo avere a disposizione più risorse  umane, conoscenza, rapporti, viabilità”.

Così ci racconta Pratelli, un “Modenese Doc”, incontrato attraverso Rosangela Lópes Alanís  dell’ufficio stampa del Ministero dello Sviluppo,Industria e Commercio Estero – Suframa,  che era a Modena a fine maggio.

n Gli abbiamo chiesto: come mai si trovava coinvolto in progetti nell’Amazzonia?

“Ciò che mi ha portato qui – ha detto –  è l’esperienza traumatica che ho avuto con i bambini di strada. Ho figli, una famiglia, ho avuto tutto dalla vita, neanche un minimo di lusso, ma l’essenziale tutto, mi sento uno dei privilegiati in questa terra, i figli stanno tutti bene, mai avuti incidenti, disastri, sono degli  scavezzacollo ma l’alveo in cui camminano è buono, i più grandi sono già impegnati nel sociale, ho avuto moltissimo dalla vita, l’incontro con Gesù Cristo, la fede, altrimenti la vita avrebbe poco significato.

Con tutto questo ho incontrato della gente che non ha avuto nulla, non hanno una famiglia, non hanno uno Stato che se ne curi, sono combattuti dalla società perché diventano una piaga, un problema sociale, quindi hanno solo nemici, l’unica sicurezza che sentono è l’amicizia il patto di sangue che fanno tra di loro.

Vivendo nel loro mezzo ho fatto una esperienza traumatica, mi son chiesto è possibile cancellare quello che ho visto e rimanermene a Modena in mezzo al mondo che  conoscete, pur avendo anche lui delle sacche di povertà. Posso ritornare, far finta che non ho visto nulla o sarà che questo incontro significa qualcosa per me?

Non era più possibile  cancellare l’esperienza e tornare alla vita normale, quindi ho trasformato la mia vita in un tentativo di trasmettere a questa gente parte di ciò che ho avuto, cercando di rendermi utile, ho individuato una formula che possa essere un servizio a quelli che ne hanno bisogno ma nell’ambito di una sostenibilità economica, quindi ho trasformato l’espeienza in un lavoro”.

n Da quando è partita questa esperienza?

Ho avuto l’occasione di conoscere questa realtà perché alcuni missionari italiani mi hanno chiamato qui nel lontano 1987, il PIME-Pontificio Istituto Missioni Estere che aveva una scuola agricola nei dintorni  la “Rainha dos Apostolos”  ma aveva deciso di   cederla, il che significava chiuderla perché nessuna istituzione sarebbe stata in grado di gestirla per mancanza di risorse.

Due dei loro dirigenti, non erano felici di chiudere l’opera, perché era strategica,  era preziosissima, ed invece di chiuderla hanno fatto un tentativo rivolgendosi ad una ONG, che si chiama Associazione Volontari per il Servizio Internazionale-AVSI Cesena.

Quanto a me, avevo amicizia con loro e nel 1986, a loro richiesta abbiamo fatto un progetto per avviare una scuola venendo in loco e verificare la situazione, così sono venuto a conoscenza di una parte della realtà  dell’Amazzonia.

Fornito il contenuto del progetto, loro lo hanno presentato al Ministero degli Affari Esteri dove è stato approvato e finanziato. Mi hanno chiesto se ero disposto a realizzarlo e quindi mi sono trasferito per cinque anni  qui, dove  sono entrato in contatto con la realtà delle popolazioni indigene che vivono nella foresta, lontanissime dalla nostra cultura, in una pace veramente eccezzionale, ma senza alcun servizio sociale, quindi con una attrazzione irresistibile verso la città, dove ci sono scuole, sanità ed opportunità di crescita.

Però oltre a questo ambiente ho conosciuto il disastro dei bambini di strada, l’altra faccia della medaglia, perché quando vengono in città  queste famiglie non riescono ad integrarsi, sono troppe, non hanno difese immunologiche e così una parte di esse muore subito e la città non riesce ad integrare tutta  la gente che arriva. Quindi c’è il fenomeno del degrado delle periferie, favelas, famiglie che si sfasciano, bambini abbandonati. Abbiamo visto questo disastro, ci abbiamo lavorato sopra, una goccia nel mare, con una serie di opere per salvare il salvabile.

Dopo questi anni, al rientro in Italia, la domanda che ci è stata rivolta dal momento che si era costituiro un gruppo che gestiva la scuola rilevata da noi, formando un ente giuridico con  un gruppo di giovani, 40 collaboratori, tecnici,  24 di cui sono professori, ed altri per servizi vari.

Il progetto iniziato insieme indicava il cammino da percorrere, dimostrando che qualunque intervento che avesse come scopo quello di fermare  un esodo così imponente dalla foresta verso la città  richiedeva tempi lunghi e grandi risorse, non poteva essere una operazione di urgenza, di breve periodo, ma di grande  spazio e risorse ingenti, quindi non certo una emergenza di crisi in cui una ONG, una associazione di amici possa fare qualcosa.

Quella che credo sia il pregio della nostra iniziativa è di aver intuito che per affrontare un tema del genere bisognava trovare  anche uno strumento, un metodo adeguato, e il metodo e lo strumento che abbiamo scelto è l’impresa,  lo sviluppo come metodo, l’impresa come strumento, siamo stati, credo, tra i primissimi, nell’ambito degli interventi di solidarietà ad avere individuato e scelto l’impresa come strumento operativo. Per parecchi anni è stato difficile far passare questo concetto  nell’ambito della chiesa cattolica dove noi operiamo, sia nelle istituzioni.

Oggi credo, sia di dominio globale e totale il fatto che non ci sono risorse per fare tutti questi tipi di interventi, il mondo è pieno di emergenze e le risorse messe a disposizione sono pochissime, se vogliamo, oggi è patrimonio comune che bisogna cercare altri mezzi, perchè quello che è ha disposizione sono briciole infinitesime rispetto al bisogno, quindi  noi ci siamo mossi nel privato dicendo alla gente – senti non ti chiediamo l’elemosina –  ma stiamo facendo un impresa  che è totalmente sociale  e tu se partecipi non riceverai in centesimo di dividendi, però diciamo in partenza che  questi tuoi dividendi serviranno ad educare, professionalizzare, salvare delle vite e tu potrai controllare venendo a vedere il nostro lavoro.

La prima è stata una iniziativa piccola, ma è piaciuta agli imprenditori della nostra zona di Modena, Bologna, Reggio Emilia, prima ancora che Milano ed altre città. Nell’ambito nostro, che è della piccola e media impresa dove è diffusissima la cultura imprenditoriale è piaciuta l’idea –  non mi chiedi l’elemosina, ma mi chiedi di prendere una quota di un progetto che è una impresa, mi piace l’idea, ci stò, hanno detto – non è cosa facile, è un lavoraccio convincere la gente, ma è stato possibile, oggi siamo 1.900 soci, principalmente quelli della nostra regione  e poi di tutta Italia.

Abbiamo raccolto 3 milioni di euro, altri 2 milioni li ha messi la Banca Popolare Emilia-Romagna, in totale abbiamo investito circa 5 milioni, ma ne mancavano altri 3, ma ora in base ad un finanziamento  di un progetto che abbiamo presentato un paio di anni  addietro, con una burocrazia infinita è però arrivato alla delibera proprio pochi giorni fà, il “Banco da Amazônia” attraverso un fondo subsidiato li ha concessi.

Una Fondazione Italiana ha  investito sull’iniziativa, oggi siamo nella ragionevole certezza di poter arrivare entro un anno all’apertura complessiva.

Questa è una iniziativa molto impegnativa, perché   all’inizio avevamo pensato ad una molto minore sui due mila euro nella peggiore delle ipotesi,  ma ora siamo già sugli otto mila circa e la dimensione è totalmente cambiata, con   un piano  steso da professionisti, nelle dimensioni giuste, con uno studio di mercato tra i più autorevoli, con un gestore che è tra i primi al mondo, che è la rete alberghiera ACCOR leader in Brasile,  che ci ha dato la tranquillità necessaria per proseguire.

La località gioca un ruolo molto importante, sono 90 km in linea retta da Manaus, il fiume è la via principale ci si impiegano circa tre ore di barca per arrivarci ed è stata costruita una strada asfaltata che passa a 15 km dal locale, ma abbiamo già fatto una bretella che ci unisce a questa arteria da dove arriveranno i servizi e il personale, 150 addetti che abitano a Novo Airão cittadina di 10.000 abitanti, che gravitano  su Manaus la trappola della grande città.

Nel complesso daremo lavoro a 150 persone all’interno della struttura e a 250 nell’indotto, per  la formazione del personale che lavorerà nel campo alberghiero  se ne occuperà Accor, io mi devo occupare delle cooporative per le attività dell’indotto, Accor ha accettato l’idea che tutto ciò che si potrà decentrare si farà in attività esterne che offrono servizi,  come la panificazione o la lavanderia, con contratti ad hoc.

Ci accingiamo a promuovere la formazione degli indios che hanno accolto di buon grado le nostre proposte  e sono entusiasti dell’idea di poter avere una attività capace di sostenerli, saranno impiegati come guide, mantenimento dell’area gestione delle riserve naturali in cui cacciavano, stiamo costruendo una scuola per ricuperare la loro lingua, le comunità  coinvolte sono prevalentemente tribù Baré dell’alto Rio Negro “aicué curi uiocó paraná-assu sui quirimbana piri pessui” = apparirà  nel grande fiume il vostro maggiore e più poderoso nemico; questa la  profezia di Pomaminarí il grande messaggero di Tupana –  non avrebbero mai immaginato che fossero gli uomini bianchi il loro maggior nemico; Tikuna del Rio Solimões sparsi anche tra Peru e Colombia, nel1998 erano 32.613 in Brasile; Sateré-Mawe  creatori della cultura del Guaraná – “anticamente noi non morivamo, perché tutti noi indios abitavamo là nel nusoquen, (grande spiazzo selciato) là fu la prima terra in cui abbiamo abitato”.. ed altri piccoli gruppi.

Il terreno in cui ci siamo stabiliti  era completamente libero e ci è stato ceduto dal governo  dell’Amazzonia, sono 94 km²  elevati sul livello del fiume che ha volte ha delle piene che raggiungono anche i 10 metri, tutte condizioni che ci hanno indotto a  questa scelta, la struttura, come concordato con Accor si chiamerà  “Mercure Amazonas”.

n Un progetto davvero lodevole, mettere assieme il volontariato e l’impresa, ma soprattutto la buona volontà e la disponibilità delle persone, ciò fa miracoli.