u Il libro di Claudio Palma e Dina Cianci “Monongah: dal fatto al simbolo”, che racconta la drammatica tragedia mineraria del 6 dicembre < ?xml:namespace prefix = st1 />
Il testo, edito dalla casa editrice Tracce su un progetto culturale proposto dalla Tholos e finaznaiato dal Cram perché fortemente voluto da Di Matteo, presenta una ricostruzione storica semplice, ma fedele di quello che accadde il secolo scorso in quel piccolo paese del West Virginia.
“E’ stato un lavoro di ricerca molto meticoloso e complicato – ha spiegato
Il premio del concorso culturale nazionale “Saturo D’Argento”, è stato consegnato dalle mani della giuria presieduta da Luciano Sardiello agli autori il 29 marzo scorso, nella suggestiva cornice offerta dal Castello dei Principi Muscettola a Leporano, sede del concorso che si avvale anche del patrocinio del Ministero dei Beni culturali, oltre che della Regione Puglia e della Provincia e del Comune di Taranto.
“Il libro merita questo premio – ha detto Di Matteo – perché racconta con semplicità un evento tragico che ha sconvolto il mondo dell’emigrazione abruzzese”.
I motivi per i quali una tragedia di grandi proporzioni come quella di Monongah sia rimasta sepolta per tanti anni, non è possibile conoscerli. Quel che è certo è che quel giorno, nelle gallerie sotterranee della miniera di carbone dove lavoravano in condizioni disumane migliaia di emigrati, sono morti in uno spaventoso incendio più di 900 persone, fra cui tanti nostri connazionali.
“Questo libro – ha concluso Palma – vuole essere un contributo alla conoscenza del fatto di cui per quasi un secolo non si è saputo nulla. Ci ha sorpreso anche scoprire, nel nostro viaggio di ricerca nel West Virginia, che ad appena pochi chilometri di distanza nessuno sapeva darci indicazioni del luogo che, a mio parere, dovrebbe invece essere considerato un vero e proprio sacrario”. Difficile sapere ancora oggi il numero esatto degli italiani e degli abruzzesi scomparsi: “Sui 360 ufficiali – ha detto Palma – un centinaio erano molisani, 40-50 calabresi e una ventina gli abruzzesi”.
Dal fatto al simbolo, quindi, perché si erge a testimonianza del sacrificio di tanti italiani, di cui molti abruzzesi, che sono morti per lavorare in un’altra nazione. Un tema, questo, estremamente attuale nel contesto odierno, dove le morti sul lavoro sono ancora tristemente note.