Mi interesso a temi legati alla cittadinanza italiana e alla comunità italica in Brasile dal 1993. Ero ancora un adolescente quando i primi riflessi della “nuova” legge della cittadinanza italiana (Legge n. 91/1992) e dell’emendamento costituzionale brasiliano (ECR nº. 3/1994) iniziarono a farsi sentire. Il fenomeno della corsa al riconoscimento della cittadinanza italiana iniziava ad avere i contorni di una marea inarrestabile.
Questa maniera di definire un fenomeno già era stata usata nella nostra storia, ma si riferiva ad un’altra marea inarrestabile: la grande emigrazione. Tra il 1861 e il 1990 quasi 29 milioni di italiani lasciarono l’Italia. Alcuni milioni tornarono in patria ma la maggior parte rimase all’estero e formò comunità importanti in molti paesi del mondo. In paesi come il Brasile, l’Argentina, l’Uruguay, gli Stati Uniti, il Venezuela, la figura dell’immigrante italiano si mischia con l’archetipo stesso dell’immigrante. Per restare nella nostra realtà brasiliana è impossibile parlare di immigrante senza pensare immediatamente agli italiani.
La nostra più grande metropoli, San Paolo, ha la sua storia indelebilmente segnata dalla presenza italiana. Tra l’ultimo quarto del XIX secolo e fino all’Era Vargas, San Paolo era una città più italiana che brasiliana. C’è persino voluto un importante studio per “comprovare” che a San Paolo “non fosse tutto italiano” (“Nemmeno tutto era italiano: San Paolo e povertà, 1890-1915” di Carlos José Ferreira dos Santos). Decine di altre città del centro-sud del Brasile hanno avuto nell’immigrante italiano la loro caratteristica demografica più rilevante. La lista è enorme, da Caxias do Sul (RS) a São Carlos (SP), da Criciúma (SC) a Poços de Caldas (MG), da Santa Teresa (ES) a Morretes (PR).
Questi molti milioni di italiani che lasciarono l’Italia si moltiplicarono in oltre 60 milioni di ‘oriundi’ italiani sparsi per il mondo nell’ultimo passaggio di secolo. Statistiche precise sono una chimera ma le stime ragionevoli indicano che di questi 60 milioni quasi il 70% si trovano nell’America del Sud, in particolare in Brasile e Argentina naturalmente. Del totale di ‘oriundi’, quasi il 39% sarebbe in Brasile e poco più del 27% in Argentina. Quindi, solo in questi due paesi si concentrano i due terzi (66%) di tutti i discendenti di italiani di tutto il mondo. Queste stime si possono trovare nell’articolo “Uno sguardo ad un secolo e mezzo di emigrazione italiana”, di Antonio Gollini e Flavia Amato, pubblicato nel lavoro “Storia dell’emigrazione italiana” organizzato da Pietro Bevilacqua (Roma, 2001).
Questi italiani fuori dall’Italia sono stati, in passato, parte di una “Italia transoceanica” che, nelle parole del grande poeta Giovanni Pascoli, avrebbe dovuto essere “redenta”. L’idea di coltivare i lacci inossidabili tra la madre patria ed i suoi figli sparsi per il mondo attraversa tutta la storia italiana dall’Unità fino alla fine del XX secolo. Non sono stati pochi i politici e teorici che vedevano negli italiani all’estero semi di italianità che avrebbero potuto rappresentare gli interessi nazionali italiani nei luoghi dove si trovassero. L’Italia, a differenza di altri paesi europei come Portogallo, Spagna, Francia o Regno Unito, non è stata un paese coloniale (i tentativi coloniali italiani in Africa – Libia, Eritrea e Somalia -, in Albania e nel Dodecanneso furono fiaschi totali).
Gli italiani all’estero sarebbero quindi pezzi fondamentali per stabilire un “imperialismo all’italiana”. Dove ci fosse un oriundo, lì ci sarebbe stata l’Italia. Già nel 1874, l’economista e politico Leone Carpi teorizzava questa “via” italiana di colonie di immigranti nel suo lavoro “Delle colonie e dell’emigrazione d’italiani all’estero sotto l’aspetto dell’industria, commercio, agricoltura”. Questo nazionalismo espansionista poteva sfruttare, quindi, la massiccia presenza di italiani all’estero come progetto geopolitico.
In questo ambiente si racchiusero tutte le leggi e le norme italiane che regolamentarono l’attribuzione della nazionalità ai figli dell’Italia transoceanica. Tutto l’impianto legale del diritto di cittadinanza era un cordone ombelicale giuridico che non avrebbe dovuto in nessun modo essere reciso. Questo ideale, discutibile come vedremo, ha ottenuto molto successo e perdura fino ad oggi nelle leggi e nelle norme vigenti.
Oltre a vedere negli italiani all’estero un’alternativa geopolitica, l’attribuzione involontaria, incondizionata e permanente della cittadinanza italiana ai discendenti era anche una forma di lenire il senso di colpa della classe dirigente italiana che non era stata in grado di dare un futuro a questi milioni di depauperati che non videro altra via di uscita se non cercare il proprio sostentamento in altri paesi. Già verso la fine del XIX secolo, l’elite italiana usava la cittadinanza italiana come uno strumento di “riparazione storica” per i suoi emigranti.
Le critiche a questa strumentazione dell’attribuzione della cittadinanza italiana esistono da almeno il primo decennio del XX secolo e si sono presentati nella XXIII Legislatura del Parlamento italiano durante i dibattiti che hanno preceduto l’approvazione della Legge nº. 555 nel 1912. Ma, come è noto, queste voci critiche rimasero tali. Le proposte che miravano ad introdurre nella prima legge organica della cittadinanza italiana ipotesi di perdita della nazionalità per “rinuncia tacita” (per “non uso”), come quella presentata dal giurista e senatore Pasquale Fiore, furono rigettate.
I decenni passarono e la distanza tra la madre patria e gli “oriundi” andò lentamente ma persistentemente aumentando. Ovviamente, l’analisi di questo allontanamento sarà sempre imprecisa, visto che i criteri sono obbligatoriamente astratti e soggettivi.
Nel 1959, l’importante giurista Rolando Quadri lanciava una critica accademica alla legge della cittadinanza italiana. Nel suo articolo “Cittadinanza” pubblicato nel “Novissimo Digesto Italiano” (Torino, UTET, 1959), Quadri inquadrò con oltre 40 anni di anticipo il fenomeno della “cittadinanza di riserva”:
“(…) il legislatore del 1912 si è troppo ispirato ad una tendenza missionaria e protettrice (…); come ha pure ecceduto nel consentire la conservazione e il recupero della cittadinanza italiana, sì da farne assai spesso una specie di cittadinanza “di riserva”, che non corrisponde in alcun modo alla vita reale dei soggetti.”
Questa critica di Quadri rimase dimenticata per alcuni decenni per ripresentarsi con forza dopo gli anni ’90 e l’inizio del fenomeno del “recupero di massa” della cittadinanza italiana da parte dei discendenti
È importante sottolineare in questa retrospettiva storica che la cittadinanza italiana è ancora oggi regolamentata solo dalla legge ordinaria. Contrariamente a quello che molti dicono, la cittadinanza italiana non è, in sé, un “diritto costituzionale”. L’assemblea Costituente italiana (1946-1948) ha deciso di non inserire nella Costituzione repubblicana del 1948 il tema della nazionalità. Tale assenza può essere interpretata in due possibili modi: uno di essi potrebbe indicare che il legislatore costituente considerava la legge n. 555 del 1912 soddisfacente e che il suo spirito avrebbe dovuto, quindi, restare in vigore, non essendo necessario “costituzionalizzare” il tema. L’altra interpretazione suggerirebbe che l’Assemblea Costituente non considerasse il tema rilevante per quel momento della storia italiana.
L’unica voce che chiedeva l’inclusione dei principi guida della cittadinanza italiana nella Costituzione fu quella di Aldo Moro, giurista e professore universitario, all’epoca al suo primo mandato come deputato costituente della Democrazia Cristiana. Anni dopo Moro sarebbe diventato primo ministro italiano (1963-1968; 1974-1976) e, il 9 maggio 1978, sarebbe stato ucciso dalle Brigate Rosse, organizzazione terroristica di estrema sinistra.
Negli anni successivi alla promulgazione della Costituzione italiana, i temi relativi alla cittadinanza italiana sarebbero rimasti dimenticati nello scenario politico italiano ed anche nell’opinione pubblica. Incredibilmente, la legge in vigore (Legge 555/1912) conteneva evidenti aspetti di incostituzionalità, ma ci vollero 27 anni per risolverne uno (la perdita della nazionalità delle donne che si sposavano con stranieri la cui nazionalità era loro attribuita automaticamente) e 35 anni per un altro (la trasmissione della nazionalità ai figli di donna italiana e padre straniero). Effettivamente, solo con le sentenze 87/1975 e 30/1983 la Corte Costituzionale italiana corregge un’assurda discriminazione di genere che dal 1948 era chiaramente proibita dall’articolo terzo della Costituzione italiana.
Infine, tra la fine degli anni ’80 e l’inizio del secolo seguente, il Parlamento italiano intraprende una discussione al fine di elaborare una nuova legge organica della cittadinanza italiana. Tale legge sarebbe poi approvata il 5 febbraio 1992. La Legge nº. 91 del 1992 ha incorporato i cambiamenti dettati dalla Corte Costituzionale ed ha iniziato a permettere chiaramente l’accumulo di un’altra nazionalità, cosa fino ad allora permesso solo in modo residuo, soprattutto per quelli nati all’estero che ricevevano un’altra nazionalità per il principio dello “ius soli”.
L’Italia degli anni ’90 non era più un paese di emigrazione. Già da alcuni anni era un paese con un saldo immigratorio positivo, ossia più stranieri arrivavano di quanto italiani partissero. Ma anche così. la nuova legge ha deciso di mantenere uno spirito etnocentrico. Alcuni analisti, come la professoressa Giovanna Zincone, vanno oltre, definendolo come “razzismo pudico”, dato che privilegia i discendenti con “alcune gocce di sangue italiano” a scapito di stranieri integrati nel tessuto sociale italiano, i cui figli seppur nati in territorio nazionale restano stranieri.
Queste critiche verranno abbracciate da altri accademici, come Guido Tintori e Ferruccio Pastore. Tintori, il più prolifico degli analisti su temi legati alla cittadinanza italiana come politica di Stato, è autore di un libro intitolato “Fardelli d’Italia”, un suggestivo gioco di parole con l’inno italiano “Fratelli d’Italia”. In italiano, “fardello” è un peso. E il peso siamo noi, gli oriundi. Seppur in presenza di una naturale reazione di indignazione, un intelettualmente onesto italo-discendente dovrà ammettere che Tintori e Zincone portano importanti elementi di analisi e riflessione.
Tintori e Zincone, come anche tutti quelli i cui lavori ho letto, non riescono ad indicare una “via d’uscita” giuridicamente possibile, forse per non considerare ciò suo compito. Così come alcuni politici che ciclicamente fanno proposte che ignorano completamente la vera natura dell’istituto giuridico della cittadinanza italiana, gli analisti sembrano credere che un radicale cambiamento legislativo farà magicamente sparire lo “status” vivo e attivo di cittadinanza dei discendenti degli immigranti italiani.
Tintori, e qui gli faccio giustizia, capisce la trascendenza della condizione di cittadini italiani degli “oriundi” affrontando il quadro giuridico del tema. Nelle sue parole, “dall’analisi della legislazione italiana in materia di cittadinanza, è piuttosto chiaro che tutti coloro ai quali è stata attribuita una cittadinanza straniera iure soli senza che avessero mai esplicitamente rinunciato alla cittadinanza italiana, l’hanno conservata e trasmessa a tutti i discendenti in linea retta – non solo maschile, ma anche femminile per i nati dopo il 1º. gennaio 1048, secondo il dettato della sentenza della Corte Costituzionale del 9 febbraio 1983, n. 30.”
Questa frase racchiude l’elemento fondamentale di discussione su una eventuale nuova legge che abbia come obiettivo “restringire diritti”, “stabilire limiti di generazione” o “imporre test di capacità linguistica”. È necessario una volta per tutte che i nostri politici e personaggi pubblici capiscano che la cittadinanza italiana dei discendenti di italiani emigrati non è una concessione dello Stato!
La cittadinanza italiana si trasmette per ‘ex lege’, ossia per forza di legge. L’attribuzione è senza condizioni e involontaria. La relazione giuridica tra l’individuo e lo Stato italiano si è già conclusa nel tempo. Si tratta di un atto giuridico perfetto. Contrariamente a quello che la maggior parte delle persone possa immaginare, l’attribuzione della cittadinanza italiana dipende solo dalla nascita e dal legame stabilito tra padre (o madre) e figli quando minorenni.
Ci sono molti miti che hanno a che vedere con la cittadinanza italiana dei discendenti. Il più importante mito può essere riassunto nella frase “la cittadinanza italiana è l’unica che non ha limiti di generazione”. Senso comune è dire che la cittadinanza X o Y, a differenza di quella italiana, è “solo per figli”. Ora, anche la cittadinanza italiana per ‘iure sanguinis’ è solo per i figli di italiano o italiana! Questo la legge dice. In nessun luogo è prevista l’attribuzione della cittadinanza italiana per nipoti o pronipoti, cosa in cui la maggior parte delle persone crede senza nemmeno chiederselo.
La caratteristica della cittadinanza italiana che la rende “generosa” e nella pratica “senza limite di generazione” è proprio il fatto di non prevedere la possibilità di perdita della nazionalità e non essere condizionata alla registrazione. Lo “status civitatis” è trasmesso involontariamente da padre (o madre) in figlio. La procedura di riconoscimento di questo status è meramente dichiarativa e non costituente. I discendenti nascono cittadini italiani, le formalità burocratiche servono solo a riconoscere uno status che già esiste e ha solo bisogno di una verifica.
I discendenti di immigranti tedeschi o spagnoli che giunsero in Brasile tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo, per citare solo due casi, non possono, nella maggior parte dei casi, essere riconosciuti come cittadini tedeschi e spagnoli perché i loro avi hanno perso le loro rispettive nazionalità di origine e non perché le normative di questi paesi stabiliscano “limiti di generazione” come molti credono. Le leggi di nazionalità di questi paesi non citano in nessun momento limiti generazionali alla trasmissione della cittadinanza.
Fatta questa necessaria divagazione, la domanda a cui dobbiamo cercare di rispondere è la seguente: fino a quando la nazionalità italiana potrà essere trasmessa ininterrottamente, di generazione in generazione, anche se il legame con la madre patria venga sempre più meno, inesorabilmente, col passare del tempo? È giusto che i discendenti di italiani con un basso legame con l’attuale società italiana possano ravvivare una cittadinanza solo per opportunismo? Ha senso proporre che l’Italia aspetti all’infinito che i suoi figli transoceanici si risveglino dal loro sonno profondo fino a che non reputino conveniente rivendicare la loro preziosa “cittadinanza di riserva”?
L’idea dell’Italia transoceanica in pratica è già naufragata da molti decenni. C’è stato un revival di italianità a partire dagli anni ’80 ma ciò non si è tradotto in legami effettivi della massa di discendenti con l’Italia. I gesti di riavvicinamento, causati proprio dal cordone ombelicale inossidabile della cittadinanza italiana, non sono andati oltre – e oso dire che non andranno – della pura “mise-en-scène” dai toni folcloristici.
Sappiamo che la nostra comunità ha subito un abbandono culturale da parte dello Stato italiano dopo la sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale. Ma mi sembra molto giustificabile a causa della distruzione che la società italiana ha dovuto affrontare alla fine degli eventi bellici. Durante questo periodo gli italiani hanno subito forti pressioni da parte dello Stato brasiliano affinché abbandonassero la loro identità. La lingua italiana venne proibita e le centinaia di scuole italiane esistenti nel paese furono sistematicamente chiuse. Ci sono ferite che non guariscono, ma ciò già fa parte del passato.
Dobbiamo guardare al futuro ed è giunto il momento di cedere. Abbiamo bisogno di una collettività forte, più coesa e culturalmente legata all’Italia. Coloro che dormono nel loro comodo sonno devono svegliarsi, finché c’è tempo. Una nuova legge dovrebbe prevedere delle ipotesi di perdita della nazionalità affinché la distrazione dei negligenti porti loro le giuste conseguenze, ossia il distacco definitivo dalla comunità nazionale. Ci sono proposte intelligenti per l’elaborazione di una nuova legge che contempli gli interessi e le necessità della collettività italiana reale, ossia quella che realmente è legata all’Italia da veri genuini legami di identità culturale. Siamo in un’epoca di abbondanza di informazione, basta avere un minimo interesse. Le vecchie scuse non servono più.
La società italiana di oggi deve aver cura delle migliaia di cittadini là residenti che hanno grandi difficoltà di accesso alla nazionalità anche se sono culturalmente integrati. Una nuova legge di cittadinanza deve trovare un punto di equilibrio tra queste due Italie, quella di ieri e di oggi, senza caduchi ideali, senza demagogia e senza xenofobia.
(Articolo originariamente pubblicato sul numero 258 della rivista Insieme)