Franco Piermartiri emigrò su un boeing 707 della Varig, prima classe. È rimasto l’unico di uno degli ultimi gruppi tutelati dal governo italiano del dopo-guerra. Racconta la sua epopea di cui sottolinea la lezione di tolleranza e accettazione delle differenze culturali come la formula della felicità e del successo in terra straniera.
Lì, in piedi aspettando il suo posto, in testa sensazioni. Francesco Piermartiri aveva appena finito di abbracciare, commosso, respirazione affannata e cuore a pezzi, tutti i parenti che lo avevano accompagnato all’aeroporto. Era sera. Fuori restò anche “quella ragazza molto speciale” – Maria Luisa – che insieme alla famiglia contendeva già da quattro anni uno spazio nel suo cuore. Come e quando avrebbe potuto rivederla? Il dubbio dell’ignoto si mischiava alla sfida che bisogna vincere circa 11.000 chilometri più in là, dall’altro lato dell’oceano. Un’avventura desiderata, certo, visto che Roma e l’Italia si trovavano in difficoltà. Ma abbandonare tutto e tutti, decidere di partire, fare le valigie, documenti e accomiatarsi in soli dieci giorni…sperando, come difesa nel subconscio, in un rapido ritorno. Eccolo comunque già preso dal primo problema…”viaggerò in piedi?”
Il Boeing 707 della “gloriosa Varig” era pieno. L’hostess gli si avvicinò dicendogli di avere un po’ di pazienza, attendere che tutti i passeggeri della classe economica si fossero seduti. Poi gli disse di seguirlo. “Superammo una tendina e raggiungemmo la Prima Classe, dove mi assegnarono una poltrona vicino al finestrino. Pensai – dice – un buon inizio!”
Era il 20 novembre 1965 e, in verità, era un po’ in ritardo. I suoi compagni di gruppo erano partiti già da 20 giorni, con la nave. Li avrebbe raggiunti a Ponta Grossa-PR dopo uno scalo a Recife per fare rifornimento. Lì, alle 5.00 di mattina, fu il suo primo contatto con il clima brasiliano: dai 6/8 gradi di Roma ai 26/28 di Recife con un tasso di umidità intorno al 70%. “Ciò fu sorprendente”, ma era solo l’inizio.
Altre sorprese sarebbero arrivate. Ad esempio, già a San Paolo (dopo un altro scalo a Rio de Janeiro) dove, per un giorno, restò nel Posto Ricevimento Immigranti, conobbe persone, ordinatamente in fila per prendere l’autobus….cosa che a Roma non esisteva, là la regola era quella dell’”assalto” all’autobus…tanto al salire come allo scendere.
Poi, già nei Campos Gerais, quel cielo azzurro in contrasto con il verde intenso dell’erba e la terra rossa…le prime foto di una realtà completamente nuova che non dimenticherà mai, tra i molti shock culturali che lo impressionarono positivamente dato che, come lui stesso dice, era pronto al confronto e aperto alle differenze.
Franco (“i romani lavorano poco e si stancano meno”, ironizza, per questo invece di Francesco è Franco) è nato a Roma il 24 gennaio 1941 nella casa del nonno, “in piena Guerra Mondiale”. Si è diplomato perito industriale meccanico al Galileo Galilei e aveva tentato la facoltà di Economia e Commercio. Aveva lavorato per sei mesi alla BMW, in Germania, dove abitava una sua sorella. Quando lasciò l’esercito (la sua leva durò dall’ottobre 1963 al febbraio 1965) iniziò a cercare lavoro in un’Italia di “tempi molto difficili”. Emigrare era il sogno di molti. Canada, Australia, Argentina…
Poi, un giorno, arrivò il suo momento. Cercò di entrare nel programma di immigrazione coordinato dal Cime – “Comitato Intergovernativo per le Migrazioni Europee” che, oltre a pagare il biglietto del viaggio, dava assistenza e appoggio agli emigranti fino al loro inserimento nei paesi verso i quali si erano diretti. Prima provò in Venezuela ma, già in via di esaurimento, gli restò il Brasile. Aiutato da alcuni amici di famiglia, ottenne l’appoggio dell’allora ministro degli Affari Esteri, Giuseppe Saragat (che poi divenne il 5º presidente della Repubblica Italiana), il quale lo inserì rapidamente nelle liste. “In soli dieci giorni, fare le valigie e partire”, racconta.
Dopo sei mesi presso il Senai, a Ponta Grossa, imparando anche nozioni di portoghese, iniziò, insieme agli altri del gruppo a cui si unì, a cercare lavoro. All’inizio andarono a Monte Alegre, nella Klabin.
Poi a Joinville, nella nascente Consul frigoriferi. Poi alla Copel, terza visita, dove trovò lavoro: nella Eletrocap – Central Elétrica Capivari-Cachoeira S/A, un’impresa a economia mista, che costruiva la centrale Capivari-Cachoeira. Altro segnale positivo: “iniziai il giorno del mio compleanno, il 24 gennaio”.
Dopo circa un anno, con un buon salario, una situazione ragionevolmente stabile, Franco decide di fare un altro importante passo della sua vita: far venire da Roma l’architetto (lei sì con un buon lavoro) Maria Luisa Valenti, con la quale si era sposato per procura sei mesi prima, venendo rappresentato in Campidoglio da suo fratello. “Qui, il giorno del mio matrimonio ottenni una licenza dal lavoro”, racconta. Poi ancora un segnale: sua moglie giunse in Brasile a bordo della nave Giulio Cesare – la stessa che, nel 1942, l’aveva portata di ritorno in Italia, dalla Somalia, dove suo padre lavorava in una fabbrica italiana si sigarette – portando con se anche una macchina che, seppur con tutti i documenti a posto, restò bloccata alla dogana brasiliana per 15 lunghi mesi.
Sarebbe stato meglio lasciare la moglie alla dogana e ritirato rapidamente l’auto, scherzavano gli amici. Così “iniziammo la nostra vita insieme”, racconta Franco, 52 anni di convivenza, due figli, cinque nipoti dopo, “molto orgogliosamente” appartenere “ad una specie in estinzione”, riferendosi alla longevità del loro matrimonio. Per tutto questo tempo, Franco ha visto vari passaggi nella sua vita professionale, incluse iniziative private dal 1973 in poi, quando lasciò la Copel. Oggi in pensione come anche Maria Luisa, quando gli va vanno in Italia ma “là ci sentiamo un po’ fuori luogo” dato che la scala dei valori è talmente cambiata che “ci sentiamo stranieri anche se è la terra dove siamo nati”.
La versione digitale di Insieme a cui gli abbonati possono avere accesso su <www.insieme.com.br> contiene un video con l’intera intervista a Piermartiri. Lì, oltre alle sfide che ha dovuto affrontare, sottolinea la necessità dell’immigrante di conoscere ed accettare le differenze per avere successo.
I suoi colleghi che non ebbero questo atteggiamento tornarono quasi tutti. Racconta anche quali sono gli angoli di Roma nei quali ha piacere di tornare quando torna alla sua terra natale, descrive la Roma che è rimasta nei suoi ricordi che non esiste più, parla della sua soddisfazione di avere scelto il Brasile, del suo amore per questo paese e per Curitiba dove ha costruito una solida famiglia e dice che rifarebbe tutto da capo, se fosse necessario. Sull’incessante ricerca degli italo-brasiliani per il riconoscimento della cittadinanza italiana è un po’ polemico: tante persone che nemmeno sanno una parola di italiano alla ricerca del “passaporto rosso”, perché? “Perché va di moda? Ci dovrebbe essere una selezione più rigorosa”, afferma nell’intervista dove gioca con il romano, che sostiene sia “er mejo der monno”.
(Insieme n. 245 – settembre 2019)