Perché bisogna regolamentare il settore della cittadinanza italiana (III)

Lo scontro tra avvocati brasiliani e italiani e il compito dell’educazione formale

Prima di continuare a discutere la materia che stiamo presentando ai nostri lettori in questa serie di articoli, bisogna fare una ritrattazione. Nell’ultimo numero avevo detto che le prime imprese di cittadinanza italiana sono state fondate da traduttori pubblici. Mi sbagliavo. Come mi ha spiegato Claudia Antonini, la cui società è stata fondata nel 1996, quindi, indiscutibilmente una delle pioniere, i lavoratori in cittadinanza si sono strutturati primariamente all’interno dei Patronati e associazioni varie relative agli italiani. All’epoca, le persone disposte a realizzare i loro processi di riconoscimento usavano in modo improprio – in assenza di prestatori di servizio specifici – le conoscenze di persone vincolate a tali entità per consultare e istruirsi sulla cittadinanza. Inoltre, come gentilmente mi ha spiegato la pioniera, all’epoca non era in vigore l’Apostille dell’Aia e la maggior parte degli Stati brasiliani non stava realizzando da decenni un concorso per l’attività di traduzione pubblica. Fatta questa importante correzione, torniamo al tema.

Abbiamo discusso precedentemente del rapporto tra traduttori pubblici, avvocati e intermediari per quanto riguarda i processi amministrativi di riconoscimento e, successivamente, alla preparazione della “cartellina” per il processo giudiziario in Italia. Essendo indiscussa la necessità della prestazione dei servizi, in territorio nazionale, da parte dei nostri traduttori pubblici – visto che l’attività di traduzione è chiaramente essenziale per la preparazione dei processi di cittadinanza, qualche difficoltà potrebbe essere osservata rispetto alla possibilità della prestazione dei servizi di consulenza da parte di questi stessi traduttori e, anche, rispetto alla capacità professionale di avvocati e intermediari per quanto riguarda i servizi burocratici (eccetto traduzione) per l’organizzazione dei processi.

PATROCINANDO SUA LEITURA

La prima – e inconfutabile conclusione – è la seguente: seppur debbano, secondo l’opinione personale di questo autore, essere preservate imprese che forniscono servizi che siano etiche e antiche, non ci può essere un’attività da parte di persone non qualificate – per quanto più ben intenzionate che possano essere – in aree che siano particolari e destinate quindi a classi professionali legalmente strutturate. Quindi, anche venendo preservate tali aziende, una futura regolamentazione, dovrà delimitare lo scopo della loro prestazione di servizi o richiedere che attuino sotto la responsabilità tecnica – o, almeno, in regime di associazione – con persone o imprese che possano fornire tali attività particolari. Non riesco, per questo motivo, a pensare come imprese di cittadinanza possano proseguire regolarmente con le loro attività senza essere, ad esempio, associate ad avvocati brasiliani o loro società legali. In questo senso, anche se si mantengano (e, come penso, anche se devono essere preservate) imprese ben strutturate ed etiche, attività di consulenza giuridica devono essere immediatamente delegate ad avvocati e studi legali contrattati o partner, poiché è vietato a professionisti non giuridici fornire consulenze – o anche pareri – la cui natura sia essenzialmente giuridica.

Ciò ovviamente porta con sé tre altre questioni:

a) resterebbe alle imprese di cittadinanza il ruolo di intermediari – professione che, come commentato nell’ultimo articolo, è stata regolata in Brasile;

B) avremmo bisogno di professionisti specializzati in questa attività in suolo brasiliano;

C) dovremmo delimitare chiaramente le azioni dei legali tanto brasiliani che italiani per aver maggior attenzione sulla materia.

La classe degli intermediari documentali – e ciò lo dico in un modo molto opinabile – dovrebbe svolgere, in ultima istanza, le attività burocratiche relative alla cittadinanza italiana (processi consolari, anche per il cittadino, e preparazione dei documenti necessari per il processo giudiziario, fatta eccezione, ovviamente, di quanto di competenza dei traduttori pubblici e avvocati).

Non voglio dire con ciò che l’avvocatura non assolva naturalmente il lavoro degli intermediari – sì, essa lo assolve, anche per quanto riguarda le attività per le quali è stata pensata, fino al momento, la professione da poco regolamentata. Si avrebbe che, un corso che preparasse intermediari documentali, in particolare per  attività presso le rappresentanze diplomatiche straniere (non solo italiane), creerebbe opportunità affinché un numero enorme di persone (che oggi lavorano con cittadinanza o iniziano a lavorarci) possa, infine, essere regolamentato, portando la dovuta sicurezza per i consumatori dei loro servizi, un costo umano un po’ più semplice, visto che il corso di intermediario di documenti è più semplice e rapido che un corso di Diritto.

Forse sarebbe anche il caso consentire che intermediari documentali fossero contrattati come responsabili tecnici di imprese di cittadinanza – senza essere necessario, quindi, che debbano essere loro stessi proprietari di imprese di questo settore, in modo, anche, da preservare – come abbiamo detto più sopra – imprese etiche che sono nel mercato da molti anni; alcune, da decenni.

Vediamo che la questione della formazione raggiunge, anche, gli avvocati brasiliani e italiani. Oggi le persone che lavorano con cittadinanza (incluso e in particolare gli avvocati) hanno imparato la procedura con persone che, prima di esse, lavoravano sulla materia. Non c’è – non in Brasile e nemmeno in Italia – un qualsiasi percorso formativo in cittadinanza italiana. A questo punto, è importante sottolineare che i corsi di breve durata – o anche specializzazioni, master e dottorati – che trattano il fenomeno dell’immigrazione (e diritti di nazionalità derivati) non si occupano di temi e pratiche relative all’attività di dichiarazione di riconoscimento della cittadinanza italiana jure sanguinis. Così, è con decisione che concludiamo per la necessità dell’organizzazione di corsi di formazione degli avvocati che possano fornire, di fatto, il titolo di specialisti in cittadinanza italiana.

Anzi, sarà nell’attività formativa che si delimiteranno competenze chiare per avvocati e avvocati. Così come è diventato impensabile per gli avvocati che si iscrivono in Portogallo e potrebbero prendere d’assalto, grazie a quanto stabilito, l’attività giurisdizionale in Italia, lo stesso si dica dall’attività di consulenti in diritto straniero che gli avvocati potrebbero svolgere in Brasile. Qui, certamente, parliamo di protezionismo e corporativismo – e non bisogna essere cinici a rispetto. Bisogna difendere gli interessi dell’avvocatura e degli avvocati brasiliani nella ripartizione delle ricchezze generate dal settore (stimate, per il biennio 2023/2024, secondo il calcolo dell’avv. Luiz Scarpelli), in 3 miliardi di reais. Ora, rendere flessibile i requisiti per l’operato degli avvocati in Brasile non sarà la giusta strada, anche se solo in qualità di consulenti. Se il processo amministrativo consolare, i servizi per il cittadino italiano (o meglio, italo-brasiliano) e l’organizzazione dei documenti per i processi giudiziari in Italia si svolgono in Brasile, null’altro che naturale è il fatto che le attività consultive siano solo degli avvocati; stessa cosa a proposito delle questioni di diritto internazionale privato che dialogano con il diritto patrio, in particolare il diritto di famiglia e il diritto di anagrafe – senza pregiudizio, ovviamente, dalla necessità dell’organizzazione di specializzazioni o persino a corsi di master professionale che siano specifici per la materia.

Ovviamente, con eccezione dall’analisi qui presentata per professionisti che hanno conquistato il diritto di agire in entrambi i paesi, siano essi preparati in Italia o in Brasile. Sul diritto conquistato o acquisito non si possono sollevare dubbi. Fatto consumato, discussione chiusa. La questione riguarda la capacità professionale di qualcuno iscritto in solo uno dei paesi poter opinare sul diritto e la giurisdizione di un altro paese, in cui non risulta iscritto. Ciò potrebbe portare erroneamente a pensare che solo avvocati iscritti in entrambi i paesi potrebbero assorbire la domanda intera. È chiaramente una falsa soluzione; oltre che non essere materialmente possibile, visto che il numero di persone in queste condizioni è molto piccolo in relazione alla domanda, non risolve barriere di ordine naturale e giuridiche, come, ad esempio, la distanza geografica e linguistica tra consumatori e prestatori di servizi e il fatto che a consulenti in diritto straniero in Brasile è proibito ricevere procure. Gli evidenti vantaggi che hanno coloro che sostengono doppia iscrizione non possono giustificare che questo sia il modello – a meno che l’integrazione avanzi al punto di consentire una formazione comune e attività professionale in reciprocità quasi assoluta tra i paesi coinvolti.

Questa non è una questione semplice da risolvere. L’importante, comunque, è andare verso l’incontro di obiettivi comuni e vantaggiosi per tutti, senza mai perdere di vista che la cosa più importante è – e sempre sarà – l’etica dei servizi offerti e la protezione di coloro che ne hanno diritto. Lasciamo un atteggiamento di competizione per una cooperazione – in particolare in relazione alla formazione dei professionisti – è un percorso che deve essere fatto, fino ad essere, come più sopra commentato, una strategia affinché si riescano a costruire comprensioni comuni, oltre a delimitare, nella maniera più naturale possibile, il ruolo di ognuno.

Nel prossimo numero parleremo su quello che possono fare le imprese di cittadinanza per iniziare a preparare un percorso sicuro, fino a che sopravvenga un qualche regolamento. A presto!