N el pomeriggio di venerdì 12 aprile c’è stata una conferenza promossa dalla Facoltà di Diritto dell’Università di Padova intitolata “Sull’acquisizione della nazionalità italiana iure sanguinis: problematiche (non solo) costituzionali. Alla luce del singolare caso delle verifiche giudiziarie a favore di cittadini brasiliani”. Intervenute sette importanti personalità, che cito nell’ordine dei loro interventi:
1 – Carlo Citterio, presidente del Tribunale di Appello di Venezia (corte di seconda istanza).
2 – Sandro De Nardi, insegnante di Diritto Costituzionale dell’Università di Padova.
3 – Fabio Corvaja, professore di Diritto Costituzionale dell’Università di Padova.
4 – Salvatore Laganà, presidente del Tribunale Ordinario di Venezia (prima istanza).
5 – Laura Lega, “prefetto” del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’Interno.
6 – Stefano Maria Cerillo, avvocato distrettuale dello Stato.
7 – Paolo Bonetti, insegnante di Diritto Costituzionale dell’Università di Milano-Bicocca.
Il titolo della conferenza già faceva capire cosa stava per arrivare. Pur avendo ricevuto il nome di “convegno di studi”, l’evento è stato a tutti gli effetti un “Manifesto Antioriundi”, ossia un’opportunità per lanciare invettive contro lo status civitatis italiano dei discendenti dei milioni di emigranti italiani che sono stati obbligati a lasciare l’Italia negli ultimi 150 anni. Ad eccezione del professor Bonetti, tutti gli altri intervenienti non hanno nascosto la loro aggressiva contrarietà al riconoscimento della cittadinanza italiana a favore dei discendenti di emigranti.
Per qualcuno che, come me, “frequenta” questo ambiente da oltre 30 anni, tali invettive non sono una novità. È così che la pensano praticamente tutti: ambasciatori, consoli, funzionari consolari, politici ecc. Persino molti membri del Comites e del CGIE. Alcuni nascondono “il gioco” in pubblico, ma si scoprono in riunioni chiuse al pubblico. Altri nemmeno nascondono quello che di fatto pensano. Apprezzo di più questi ultimi, ovviamente.
E non c’è ovviamente nessun problema ad avere opinioni personali sull’argomento. Tutti abbiamo opinioni su tutto, da chi dovrebbe essere l’allenatore della nostra squadra del cuore fino a se il corretto è dire biscotto o galletta.
Però, il problema sorge quando personalità che dovrebbero riflettere in modo razionale e scientifico su un tema preferiscono fare analisi superficiali degne di chiacchiere da bar, snocciolando dati senza la necessaria contestualizzazione o persino dati senza alcuna relazione con il tema trattato. Ed è stato questo tipo di analisi fuorviante che hanno ascoltato i presenti alla conferenza a Padova, purtroppo.
I presidenti dei tribunali hanno esposto le loro lamentele relative alla grande quantità di processi di riconoscimento della cittadinanza iure sanguinis. E, ovviamente, su questo punto hanno ragione. Tuttavia, la soluzione che hanno inquadrato non si basa su un’analisi scientifica del fenomeno, ma di iure condendo, cioè, con una speranza infantile che tutto possa essere risolto con una modifica legislativa urgente.
I due costituzionalisti dell’Università di Padova, De Nardi e Corvaja, dai quali ci si aspettava molto, hanno fatto considerazioni incredibili, per non dire altro. È stata la prima volta che ho dovuto confrontarmi con l’ipotesi di incostituzionalità di tutto l’impianto legale italiano basato sul principio di ius sangunis. Entrambi i costituzionalisti, per riassumere i loro argomenti, hanno affermato che i discendenti sono “pseudoitaliani” con nessun legame effettivo con l’Italia e che il principio di ius sanguinis, come oggi è applicato, sarebbe contrario allo spirito della Costituzione italiana.
Corvaja ci definisce come “non italiani collegati alla Repubblica” e afferma che la cittadinanza italiana, secondo la Costituzione, dovrebbe presupporre un legame territoriale – persino ancestrale – tra il cittadino e l’Italia, essendo al suo vedere impossibile “mantenersi italiano” a distanza, tanto fisicamente come temporalmente (con il passare delle generazioni). Descrive inoltre che la moltiplicazione degli oriundi costituirebbe un “fenomeno demografico allarmante”, usando esattamente le sue parole. Corvaja ha sostenuto le teorie del costituzionalista Vezio Crisafulli, a suo tempo giudice della Corte Costituzionale, che aveva definito che un popolo – secondo la Costituzione – si configura quando c’è “fisica convivenza” e “residenza comune”, in un collegamento di conoscenza tra il cittadino ed il territorio.
Però, il dotto costituzionalista padovano si è dimenticato di dire che Crisafulli morì nel 1986, molto prima della rivoluzione che internet ha portato nelle comunicazioni. Le sue teorie sono di un tempo in cui nemmeno si sognava che persone in qualsiasi angolo del mondo potessero comunicare liberamente in qualsiasi momento e avere accesso a giornali, riviste e tutti i tipi di contenuti in modo quasi illimitato. Io, come tante altre persone, sono attualmente molto più in contatto con alcuni parenti e amici che vivono in Italia di quanto possa avere con familiari che vivono a pochi chilometri dalla mia casa.
Mi ricordo che quando ero adolescente, dovevo prendere la metropolitana e andare fino al Circolo Italiano, nel centro di San Paolo, per poter leggere giornali e riviste italiani già vecchi, visto che ci mettevano settimane per arrivare. Ma è già da molto tempo che questo mondo non c’è più! Solo che quando la pancia pensa di più che il cervello, le conclusioni che vengono fuori sono solo bile. È l’erudizione al servizio della fobia dello sconosciuto.
Quindi, secondo De Nardi e Corvaja, la Corte Costituzionale italiana dovrebbe essere chiamata a pronunciarsi su una possibile illegittimità dello ius sanguinis come criterio di trasmissione della cittadinanza. È un “salto ornamentale” retorico che solo il preconcetto, nella sua accezione più pura, può spiegare.
Non sono mancati nemmeno riferimenti ad una supposta incompatibilità della legislazione con il diritto comunitario, cioè, con il diritto dell’Unione Europea. E, come sempre, si fa menzione ad un’inesistente pressione dell’Europa”, entità amorfa, sull’Italia, a causa delle cittadinanze “date con molta facilità”. Passano con facilità dalle stravaganze retoriche alla falsificazione dei fatti.
E su falsificazioni, non poteva mancare la più grande e più comune di tutte! Quella che dice che altri paesi europei hanno imposto “limiti di generazione” per il riconoscimento delle loro cittadinanze, cosa che è un falso clamoroso, ma comunque onnipresente ed onnipotente, che è un argomento difficilissimo di combattere, visto che richiede spiegazioni più complesse che la maggior parte delle persone non hanno pazienza di ascoltare. Il dott. Laganà, per arricchire la falsità, ha usato persino una parola latina per attribuire un carattere quasi “imperiale”. Non stabilendo limiti di generazioni, l’Italia sarebbe un “unicum” nel panorama preso a confronto.
Ciò che mi sorprende e mi fa disperare è vedere persone dalle quali ci si aspettava un’analisi minimamente basata sul metodo scientifico facendo analisi superficiali e primatiste. E qui ripeto la sfida a quelli che sostengono che altri paesi prevedono limiti di generazione per il riconoscimento della nazionalità originaria: indichino esattamente quale sarebbe la norma che tanto hanno il piacere di citare.
Si noti bene: cittadinanza iure sanguinis per via originaria e non concessioni per naturalizzazione facilitata per origine etnica come fanno l’Ungheria e la Croazia, per citare due esempi. Nel caso di naturalizzazioni facilitate si verifica la nazionalità in via derivata e non originaria.
E ripeto la sfida per quanto riguarda l’istituzione dei requisiti per l’accesso all’attribuzione per via originaria della nazionalità, che sia la conoscenza della lingua nazionale o altro. Nessun paese del mondo impone requisiti di conoscenza della lingua o civici per l’attribuzione via originaria della sua nazionalità. Nessuno.
E il lettore forse mi domanda: ma perché, nel caso di altre nazionalità, come portoghese, spagnola o tedesca, sembrano esserci limiti di generazioni, dato che molte meno persone hanno accesso al riconoscimento, anche avendo la stessa distanza di generazioni con l’emigrante europeo? La risposta è semplice: perché altre legislazioni hanno da sempre previsto regole di perdita della nazionalità o di interruzione della trasmissione per un qualche tipo di omissione dello stesso cittadino, come una manifestazione di volontà in vita o iscrizione consolare per il mantenimento della nazionalità.
E sono stati proprio questi dispositivi di perdita che il legislatore italiano, nel 1912, ha scelto deliberatamente di non adottare, come persino lo stesso professor Corvaja ha ammesso nel suo intervento. Ora, tempus regit actum (il tempo regola l’atto, ndt). È un principio fondante del Diritto. Quello che è stato determinato dalla vigenza di una legge non si tocca! E, come determina il Codice Civile italiano in vigore e il precedente (1942 e 1865, rispettivamente), la legge può disporre solo per l’addivenire, per il futuro.
E sono stati esattamente questi punti concettuali i grandi assenti di tutte le esposizioni!
Cosa pensano i dotti professori sui principi dell’azione della legge nel tempo, della non retroattività della legge e del rapporto giuridico esaurito? La Corte Costituzionale italiana ha definito in un comunicato di gennaio di quest’anno che “Il principio di non retroattività della legge costituisce un fondamentale valore di civiltà giuridica, oltre alla materia penale”.
Tutta la letteratura accademica e pratica sulla questione della trasmissione della cittadinanza italiana iure sanguinis stabilisce chiaramente che gli individui nascono cittadini italiani. In virtù della legge in vigore al momento del fattore generatore di quella attribuzione (il punto di vista regit actum, che è la nascita), il figlio dell’italiano è investito dello status civitatis italiano automaticamente ed è di iure cittadino italiano. Il riconoscimento formale di questi status civitatis è una mera verifica del possesso ininterrotto della cittadinanza italiana. Tale procedura, sia amministrativa o giudiziaria, è solo dichiarativa e non costitutiva, cioè, dichiara che la cittadinanza italiana già esiste, non la costituisce in quel momento.
Nessun dibattito serio sulla modifica della legislazione potrebbe non affrontare queste questioni. Vedendo che persino accademici optano per ignorare i principi di base del diritto al trattare un qualcosa di così nobile come la questione della cittadinanza, abbiamo capito come la discussione del tema in Italia è un qualcosa di tristemente povero.
Vorrei invitarvi ad una digressione demografica. Fin dal 1993, ad eccezione del 2004 e 2006, muoiono in Italia tutti gli anni più persone di quante ne nascano. Nel 1875, 150 anni fa, proprio l’anno che segna l’inizio della Grande Emigrazione, nacquero in Italia poco più di un milione di bambini e la popolazione totale era di 28,5 milioni di abitanti. L’anno scorso, su una popolazione totale di 59 milioni sono nati solo 379.000 bambini. Questa è una fotografia molto evidente dell’inverno demografico in cui l’Italia si ritrova e senza che nulla possa suggerire come e quando cesserà.
Però, ascoltando i luminari riuniti a Padova, c’era l’impressione che il paese in cui vivono soffra di una vera esplosione demografica, di livelli superiori a Bangladesh o Nigeria. Gli oriundi sarebbero una spaventosa minaccia per un paese già “pieno di persone”. È un caso classico di dissonanza cognitiva. E nemmeno sottolineo il soft power che gli oriundi rappresentano e che l’Italia dovrebbe trattare come una vera manna.
Infine, è stato un sollievo alla fine della giornata sentire le parole del prof. Paolo Bonetti sulla storia e l’importanza dell’emigrazione italiana nel mondo. Tuttavia, nemmeno lui ha affrontato gli elementi che considero essenziali a questo dibattito e che non mi stancherò mai di ripetere: al voler modificare la legislazione, che fare con i principi dell’azione della legge nel tempo, della non retroattività della legge e del rapporto giuridico esaurito?
(Testo pubblicato sull’edizione 296 della Rivista Insieme – Traduzione Aiuta / Claudio Piacentini))