Homens e mulhertes imigrantes na colheita do café por volta de 1930, de autor desconhecido. / Uomini e donne immigranti nella raccolta del caffé verso il 1930, di autore sconosciuto (Foto: Acervo Museu da Imigração -SP)

UNA SENTENZA FA RIVIVERE IL FANTASMA APPARSO ALL’ALBA DELLA REPUBBLICA BRASILIANA FINO AD OGGI ESORCIZZATO DALLA REPUBBLICA ITALIANA. PREOCCUPATI DAGLI EFFETTI CHE CIÒ POTREBBE SIGNIFICARE PER MILIONI DI ITALO-BRASILIANI, UNA COPPIA DI AVVOCATI CERCA DI METTERE IN CONTATTO BRASILE E ITALIA NELLA LOTTA CONTRO LA CONFUSIONE DELLA 

I – Introduzione

PATROCINANDO SUA LEITURA

Fin dal 2019, alcuni Avvocati dello Stato, contestando alcune azioni proposte presso il Tribunale Ordinario di Roma, hanno richiamato, nelle loro ragioni, l’argomento della cosiddetta Grande Naturalizzazione brasiliana. Da quell’anno in poi, una grande preoccupazione ha iniziato a circolare tra gli italo-discendenti brasiliani rispetto alla possibilità di ottenere la cittadinanza per via giudiziaria. 

È anche vero che il ritorno dell’argomento è stato molto ben sfruttato da opportunisti di tutti i tipi che, come sappiamo, sono sempre avidi di impossessarsi di una parte dei milioni di Euro generati annualmente dalla “industria della cittadinanza”. Professionisti più seri e coinvolti sul tema in modo accademico iniziarono, quindi, un processo di raffreddamento degli animi esaltati, spiegando agli interessati che l’argomento non avrebbe mai potuto prevalere, in particolare in relazione ad un vecchio giudizio, del 1907, in cui era stata totalmente rifiutata la tesi della Grande Naturalizzazione. Giustamente avevano sostenuto, con ragione, che molti paesi europei, all’epoca, si erano irritati con il governo brasiliano, avendo come punto di vista la tradizione del diritto continentale che, oltre ad allontanare la possibilità di una rinuncia tacita alla nazionalità originaria degli stranieri stabilitisi in Brasile, difendeva l’impossibilità di una legge straniera di derogare ad una legge nazionale – che, secondo questa tradizione, avrebbe dovuto disciplinare lo stato, l’idoneità ed i diritti familiari degli espatriati.

A queste ragioni se ne aggiungono altre, di natura pragmatica, visto che, come detto dagli avvocati italiani, l’Avvocatura dello Stato, oltre a non esprimersi nella maggior parte dei processi della XVIIIª Sezione Civile del Tribunale Ordinario di Roma, quando presente nelle udienze contestava solo l’eventuale condanna dello Stato a spese e incombenze, essendoci, quindi, una minima possibilità che alcune di queste contestazioni si trasformassero in ricorsi per la Corte d’Appello di Roma. Ma tutti gli italo-discendenti brasiliani aspettavano, fin dal 2019, non poco preoccupati, il giudizio della Corte d’Appello sulla Grande Naturalizzazione brasiliana. 

Poco più di un mese fa la Corte ha giudicato il primo dei ricorsi. Una sentenza della “Sezione Persona, Famiglia e Minorenni” ha messo in subbuglio le comunità giuridiche brasiliane e italiane che hanno a che vedere con la cittadinanza, portando ai massimi livelli di preoccupazione gli italo-discendenti brasiliani che vedono i loro processi in corso presso il Tribunale Ordinario o persino quelli che si trovano in fase di istruzione o hanno l’intenzione di farlo. In contrasto con l’antica giurisprudenza della Corte di Napoli, i giudici della suddetta Sezione hanno recepito gli argomenti dell’Avvocatura dello Stato, invertendo il giudizio monocratico del Tribunale Ordinario, dando un’interpretazione veramente assurda all’art. 11 del Codice Civile italiano del 1865, interpretandolo partendo da una presunzione: essendosi l’italiano inserito nel tessuto sociale del paese straniero, avrebbe, ipso fatto, ottenuto la cittadinanza brasiliana e rinunciato tacitamente alla cittadinanza originaria italiana, visto che, prima dell’entrata in vigore della Legge nº 91/1992, non vi era, in teoria, nell’ordinamento giuridico italiano la possibilità della doppia cittadinanza.

Benché continuino ad essere validi argomenti pragmatici che, con molta forza, stanno venendo sostenuti dai professionisti, in particolare dell’area giuridica, che lavorano con la cittadinanza italiana, vale la pena prepararci ad una dura lotta contro un eventuale cambiamento di orientamento delle Corti Italiane sull’argomento. Ed è imbevuti di questo spirito che, ancora una volta con la generosità degli editori di Insieme, abbiamo preparato questo articolo, non solo per sminuzzare il tema della Grande Naturalizzazione ma, in particolare, per sollevare argomenti contro questa ultima sentenza e prepararci con azioni concrete con la forza sufficiente affinché, definitivamente, si possa sotterrare questa assurda tesi, riaffermando, una volta per tutte, il diritto che abbiamo alla nazionalità italiana, come vollero, profondamente, i nostri coraggiosi avi.

Per la produzione di questo testo, abbiamo potuto contare sulla ricerca e l’esperienza degli autori, ognuno per l’area di sua giurisdizione, in modo che il primo autore affronterà principalmente materie relative all’ordinamento giuridico brasiliano e la seconda autrice, a sua volta, affronterà aspetto dell’ordinamento giuridico italiano. Non è un compito semplice ma, al momento, è un qualcosa di profondamente necessario. Auguriamo quindi una buona lettura e un ottimo uso del testo – e quindi partiamo!

II – Premessa alla Grande Naturalizzazione

Il Brasile Imperiale corrisponde ad una fase della storia brasiliana che va dal 1822, anno dell’indipendenza, il 1889, anno della Proclamazione della Repubblica. Con il ritorno di Don João VI in Portogallo, per controllare la cosiddetta Rivoluzione Liberale di Porto, suo figlio Don Pedro potè trovare sostegno e spazio per rompere i lacci con il Portogallo, proclamando l’indipendenza dell’antica colonia. Le borghesie brasiliane e portoghesi si confrontarono e la Rivoluzione Liberale di Porto richiedeva che i benefici concessi dalla Corona alla borghesia brasiliana fossero cassati – cosa che, ovviamente, non fu accettata dalle élite economiche in Brasile, arrivando così al “Grido di Indipendenza” ed alla fondazione dell’Impero del Brasile, il 7 settembre 1822.

La fase imperiale della storia brasiliana può essere divisa in tre periodi: dall’indipendenza all’abdicazione di Don Pedro I, il cosiddetto Primo Regno, fase segnata dall’autoritarismo e incapacità di Don Pedro I nell’amministrazione dell’Impero; con l’abdicazione del trono, nel 1831 a favore del figlio Don Pedro II, iniziò il cosiddetto “Periodo di Reggenza”, visto che la minore età di Don Pedro II impediva che egli governasse senza l’assistenza di reggenti. La reggenza terminò con un golpe parlamentare che anticipò la maggiore età e l’incoronazione di Don Pedro II, nel 1840. Infine, c’è il cosiddetto Secondo Regno, corrispondente al governo monarchico di Don Pedro II, la cui fine è contrassegnata dal golpe militare che proclamò la Repubblica il 15 novembre 1889.

Benché il regno di Don Pedro II sia stato importantissimo per consolidare l’idea di uno Stato brasiliano, la struttura economica fondamentale del Brasile, i latifondi del caffè caratterizzati dalla schiavitù, vedevano le loro basi subendo profondi colpi. Dall’esterno vi era la sempre più forte pressione inglese per l’abolizione della schiavitù nera. Con il divieto del traffico negriero (Legge nº 581, del 4/9/1850 – Legge Eusébio de Queirós), iniziò il lungo periodo della fine della schiavitù degli uomini di colore in Brasile, il cui punto finale fu con l’abolizione della stessa (Legge Aurea, del 13/5/1888). Nel paese, sia il movimento abolizionista che la nascita di una nuova élite del caffè fornirono le più importanti basi per il passaggio dall’Impero alla Repubblica.

Oltre alla crisi dello schiavismo, la Guerra del Paraguay (1864-1870) fece emergere la crescente insoddisfazione delle Forze Armate per il Secondo Regno. Va notato che le Forze Armate, formate nella loro quasi totalità da persone provenienti dalla classe media urbana, rispecchiavano esattamente la parte della popolazione brasiliana che, secondo il sistema politico ed elettorale in vigore fin dalla Costituzione Concessa del 1824 – la prima Costituzione del Brasile – era sempre stata esclusa dal sistema rappresentativo brasiliano. La Guerra del Paraguay fu essenziale affinché questi settori della società ambissero concretamente, per la prima volta, a partecipare al sistema rappresentativo brasiliano, cosa che, secondo la Carta del 1824, era impossibile. Una nuova coscienza corporativa, l’influenza del positivismo filosofico nella Scuola Militare ed i contatti con le esperienze repubblicane dei paesi vicini, portarono i militari ad appoggiare in maniera sempre più incisiva le idee che volevano riformare profondamente la Monarchia o, addirittura, sostituirla con una Repubblica.

La nuova élite del caffè di San Paolo, del cosiddetto “Nuovo Ovest Paulista”, contrapponendosi ai vecchi “baroni del caffè”, rappresentati, a loro volta, dai produttori di caffè della Vale do Paraíba e dalle élite fluminensi, diede sostegno alla transizione tra Impero e Repubblica. Contrari allo Stato Unitario Monarchico, visto che era sempre più legato al capitale internazionale, i produttori dell’Ovest Paulista iniziarono a promuovere, ancor prima dell’Abolizione della Schiavitù, la sostituzione della manodopera schiava con manodopera straniera. Ovviamente i nuovi ricchi sapevano che la caduta della Monarchia e la sostituzione della parte alta della piramide sociale brasiliana dipendevano dalla fine della schiavitù della gente di colore e, di conseguenza, dalla caduta di Don Pedro II. Le insoddisfazioni dei settori medi urbani e militari si ritrovarono con le insoddisfazioni dei produttori di caffè dell’Ovest Paulista, materializzandosi quindi nelle bandiere dell’abolizionismo e repubblicanesimo. La Legge Aurea (13/5/1888) e la Proclamazione della Repubblica (15/11/1889) corrispondono, quindi, al successo delle aspirazioni politiche di questi settori sociali sul vecchio ordine sociale.

Come abbiamo detto, dietro al golpe militare che fece cadere Don Pedro II, c’era la necessità, da un lato, di una transizione di élite nel controllo del potere politico brasiliano e, dall’altro, la questione della rappresentatività politica dei settori sociali esclusi dai giochi politici fin dalla Costituzione del 1824. Per capire meglio la questione della Grande Naturalizzazione, è necessario avere questo panorama storico in mente.

Nel sistema elettorale basato sul censo della Costituzione del 1824, la capacità elettorale attiva e passiva era determinata dalla rendita. Oltre a ciò, le elezioni dei rappresentanti presso il Potere imperiale erano indirette. Gli elettori erano suddivisi in elettori di parrocchia ed elettori di provincia; gli elettori della parrocchia – uomini, di almeno 25 anni, con un minimo di rendita annuale provata di 100.000 Réis – eleggevano gli elettori della provincia – uomini, di almeno 25 anni, con un minimo di rendita annuale di 20.000 Réis. Erano poi gli elettori di provincia che, indirettamente, eleggevano deputati e senatori – uomini le cui rendite anuali avrebbero dovuto essere di 400.000 e 800.000 Réis all’anno, rispettivamente. Essendo una delle aspirazioni del repubblicanesimo l’estensione di questa rappresentatività per i settori sociali allora esclusi dal sistema politico, come fare per dare risposte a queste aspirazioni senza che ci fosse una perdita di controllo del potere politico da parte della categoria in ascesa, ossia quella dei produttori di caffè del Nuovo Ovest Paulista?

La risposta venne tramite tre differenti politiche: 

1) la formazione di un federalismo basato su poteri decentralizzati, appoggiato, quindi, su oligarchie locali; in questo modo, il legame dei produttori di caffè di San Paolo con gli interessi internazionali non avrebbe subito interferenze da un potere federale centralizzatore; 

2) formazione di un sistema elettorale che potesse essere controllato dai potenti locali; così, il voto palese avrebbe permesso ai “coronéis” (capi indiscussi del territorio, ndt) di obbligare gli elettori a votare loro stessi o i candidati da loro sostenuti; 

3) approfittare, nel sistema elettorale, della manodopera straniera presente in Brasile, risultato della sostituzione della manodopera schiava. Questa manovra politica avrebbe potuto essere di grande importanza per i potenti dell’Ovest Paulista, visto che il “voto di scambio” non avrebbe dovuto escludere, a priori, le migliaia di stranieri che, a San Paolo, stipavano i campi da coltivare ed alcuni stanziamenti o colonie presenti in molti centri urbani. 

È in questo ultimo punto che la transizione tra il Brasile Impero e il Brasile Repubblica, in particolare nello Stato di San Paolo, trova i nostri compianti avi italiani.

III – Immigrazione e Grande Naturalizzazione

Nella Costituzione del 1824, si prevedeva che i nati in Portogallo o nei suoi possedimenti, se residenti in Brasile all’epoca dell’indipendenza, sarebbero stati considerati cittadini brasiliani se avessero aderito alla nazionalità brasiliana in modo esplicito o tacito, in questo caso, per la semplice continuità della loro residenza in Brasile.

La naturalizzazione tacita, prevista per i portoghesi nella Costituzione del 1824, aveva molto senso: innanzitutto, per il fatto che Brasile e Portogallo, dal 1815, erano in pratica stati un tutt’uno politico che solo con l’indipendenza si sarebbe rotto; in secondo luogo, per il fatto che, con l’indipendenza, nasce una nuova Nazione, prima inesistente; infine, in terzo luogo, per la vicinanza culturale, linguistica, di affari, politica, insomma per l’amalgama tra Brasile e Portogallo, ovviamente ereditato dall’intima relazione, tra i due, nel periodo coloniale e che si era profondamente intensificata dall’arrivo della Famiglia Reale Portoghese in Brasile, nel 1808. 

Il governo Provvisorio di Marechal Deodoro, in linea con le speranze politiche delle oligarchie che avevano sostenuto il golpe che aveva destituito la monarchia, aveva garantito la possibilità di costituire un imprescindibile elettorato per i “coronéis” anche con gli stranieri radicati in Brasile, se necessario, allargando a tutti loro la naturalizzazione tacita che era stata applicata solo ai portoghesi all’avvento dell’Indipendenza.

Il primo tentativo di ingrossare, con stranieri naturalizzati in fretta, le future file elettorali delle oligarchie, in particolare quelle dell’Ovest Paulista, si materializzò nel Decreto 13-A, del 26 novembre 1889. Secondo il testo di questo decreto, tanto il governo federale, tramite il Ministro e Segretario degli Affari Interni come i governatori degli Stati, potevano concedere la naturalizzazione a tutti gli stranieri che la richiedessero, indipendentemente dalle formalità previste nei decreti all’epoca in vigore, il n. 808-A del 1850 e quello n. 1950 del 1871. 

Per capire meglio la questione, vale la pena sottolineare che i flussi migratori verso il Brasile possono essere divisi in due differenti tipi: quello dell’emigrante “colono”, ossia quello a cui erano concesse terre, con una finalità specificatamente demografica e l’emigrante “bracciante”,  ossia colui che, a dispetto della eventuale concessione di terra, veniva destinato a lavorare la terra di altri, principalmente nelle coltivazioni di caffè, andando a sostituire la manodopera schiava di colore. 

Il Decreto 13-A del Governo Provvisorio aveva come obiettivo, in particolare, il flusso migratorio di “braccia per i campi”, dato che alleggeriva le formalità previste dal Decreto nº 1950/1871 come, ad esempio, prova del periodo minimo di residenza in Brasile e un giuramento presso le autorità politiche nazionali.

Nel periodo tra il 1808 e il 1850, la politica migratoria aveva come obiettivo principale la colonizzazione. Con la possibilità data ai governi Provinciali, a partire dal 1850, di poter stabilire loro stessi politiche migratorie, c’è stata un’intensificazione dell’immigrazione europea verso il Brasile, di pari passo con leggi che gradualmente limitavano la schiavitù di colore (la già citata Legge Eusébio de Queirós, 1850, ma, anche, la Legge del Ventre Livre, del 1871, e la Legge dei Sexagenarios, del 1885) e, in particolare, lo sviluppo dell’industria del caffè nel cosiddetto “Nuovo Ovest” paulista, seppur si debba citare, in minor misura, la sostituzione di manodopera schiava nei campi di Minas Gerais e Rio de Janeiro. È a questa seconda specie di politica migratoria, con chiari stimoli dell’iniziativa privata, che si applica lo slogan dei “braccia per i campi”, facendo una giusta considerazione: parallelamente al flusso migratorio del “braccia per i campi”, altri Stati brasiliani come, ad esempio, Espirito Santo e Rio Grande do Sul, continuarono con politiche migratorie ancora rivolte alla colonizzazione. Sovvenzioni pubbliche per l’immigrazione, creazione di uffici specializzati nei paesi di origine, per la raccolta degli immigranti europei e la costruzione di case di immigranti e linee ferroviarie ad hoc per la distribuzione dei nuovi arrivati sono azioni che fecero parte di questo periodo storico, con un forte aumento dell’immigrazione europea dalla seconda metà del 1870. Si stima che tra gli anni 1880 e 1930, oltre 4 milioni di immigranti siano arrivati in Brasile, di cui la metà destinati allo Stato di San Paolo, con l’impressionante dato di circa il 50% di italiani. 

È da notare che gli italiani rispondevano appieno ai desideri delle nuove politiche migratorie brasiliane. Dietro la sostituzione della manodopera di colore, c’era il desiderio di “sbiancare” della popolazione brasiliana – e le politiche provinciali di immigrazione europea stabilivano sovvenzioni specifiche per l’espatrio di “europei del Nord”. 

L’eugenismo brasiliano si incrociò, a partire dagli anni ’70 e ’80 del XIX secolo, con la miseria del Nord Est italiano: dopo la fondazione del Regno d’Italia, nel 1861 e, in particolare, dopo l’annessione del Veneto grazie ad un dubbioso plebiscito che si susseguì all’accordo di pace tra Austria e Italia, nel 1866, fame e desolazione si abbatterono sui già poverissimi nuovi italiani. 

Privato, da molto tempo, della sua antica identità politica e venendo da un massacrante periodo di dominazione austriaca, il popolo veneto, anziché ritrovarsi con la promessa “Grande Patria”, arrivò al punto più critico della sua crisi economica e sociale. La propaganda e i sussidi brasiliani per l’immigrazione arrivarono a pennello – e, a partire dalla seconda metà del 1870, intere città del Veneto attraversarono l’Atlantico verso l’America, stimando che uno su tre veneti lasciarono l’Italia in questo periodo.

L’assenza di qualsiasi formalità, come previsto dal Decreto 13-A del 1889, per la naturalizzazione di “braccia per i campi”, non piacque molto ad alcuni quadri della politica dell’epoca, visto che l’assenza di formalità, secondo alcuni importanti politici e giuristi, “svendeva” la cittadinanza brasiliana che, nei termini del Decreto, poteva essere concessa a qualsiasi “forestiero”, senza che quest’ultimo dovesse fornire nessuna prova, nemmeno di residenza o di precedenti penali. 

Così, poco tempo dopo, il Governo Provvisorio emise il Decreto 58-A, del 15 dicembre 1889, adattando l’idea della naturalizzazione tacita dei portoghesi, prevista dalla Costituzione del 1824, per tutti gli stranieri radicati in Brasile; in questo modo, il governo provvisorio riuscì a far combaciare vari interessi in un unico atto: “mercanteggiava”, e nemmeno tanto, la nazionalità brasiliana esigendo dallo straniero che dichiarasse, davanti ad alcune autorità, la volontà di conservare la nazionalità di origine e, allo stesso tempo, apriva lo spazio necessario affinché le oligarchie locali, in particolare quelle di San Paolo, mettessero sotto i loro maneggi elettorali, se così volessero, parte delle migliaia di immigranti in condizioni di esercitare il voto. Triste il destino degli italiani: da miserabili in Italia all’essere manovrati dai giochi elettorali brasiliani.

È importante sottolineare che il Decreto 58-A aveva due condizioni cumulative affinché lo straniero potesse essere considerato tacitamente naturalizzato:

a) la prima che risiedesse in Brasile il 15 novembre 1889;

b) la seconda, che non dichiarasse, davanti al consiglio comunale, entro sei mesi dalla pubblicazione del Decreto, l’intenzione di mantenere la nazionalità originaria.

Con la pubblicazione del Decreto nº 479, del 13 giugno 1890, venne dilatato il termine inizialmente previsto dal Decreto 58-A; con la costituzionalizzazione della naturalizzazione tacita, lo stesso termine fu prorogato fino al 24 agosto 1891.

Benché molto si parli del Decreto 58-A, non può mai essere distinto da un altro Decreto che lo ha seguito – e che mostra in toto il matrimonio realizzato dal governo provvisorio tra lo status di cittadino naturalizzato con la formazione delle liste elettorali della Vecchia Repubblica. Si tratta del Decreto nº 396, del 15 maggio 1890. Oltre ad ampliare la competenza per il ricevimento delle dichiarazioni degli stranieri che non volessero acquisire tacitamente la nazionalità brasiliana, ai delegati e affiliati di polizia il decreto stabiliva: 

Art. 4º Scaduto il termine di sei mesi fissato all’art. 1º del suddetto Decreto [58-A], tutti i libri di dichiarazioni fatte presso gli scrivani dei delegati o subdelegati di polizia saranno da queste autorità o i loro supplenti in esercizio, inviati al presidente del Consiglio o Intedenza Municipale, per essere messi a confronto con le liste degli stranieri qualificati elettori, inviate dalle commissioni distrettuali responsabili delle liste, procedere, la commissione municipale in conformità alla seconda parte dell’art. 1º del decreto n. 277 E, del 22 marzo scorso, all’eliminazione dei nomi di coloro che, entro tale termine, abbiano dichiarato di non essere interessati alla nazionalità brasiliana”.

Si può notare che, nell’iniziativa adottata dal Governo Provvisorio, in preparazione del nuovo ordine politico che seguirà la proclamazione della prima Costituzione del periodo repubblicano, la qualifica dello straniero come elettore avrebbe dovuto avvenire prima della sua naturalizzazione! Così, la cosiddetta naturalizzazione tacita degli stranieri mirava solo all’esercizio di un unico diritto correlato alla cittadinanza, secondo gli interessi delle oligarchie: il diritto di votare. Interessava, quindi, alle oligarchie locali, la formazione delle liste degli elettori, inclusi gli stranieri “naturalizzati” se fosse stato necessario, al fine di mantenere anch’essi sottomessi alle manovre elettorali del voto di scambio della Vecchia Repubblica.

Quindi, la giustificazione “dorata” che fu stata data ai paesi europei che, giustamente, si ribellarono contro la naturalizzazione tacita dei loro compatrioti, non fu altro che una bugia. La naturalizzazione tacita del 1889 non ebbe mai lo spirito del concetto di “Madre Patria” o di “Patria Aperta a tutti i popoli”, che la Diplomazia brasiliana stava cercando di creare in presenza delle proteste delle nazioni europee, in particolare Francia e Italia; al contrario, si trattava di arruolare elettori in numero sufficiente, inclusi gli stranieri, che avrebbero sostenuto, letteralmente sotto minaccia, il potere delle oligarchie. Ma, come inserire nelle liste gli stranieri come elettori se la naturalizzazione fosse dipesa solo da un loro atto volontario? 

La Grande Naturalizzazione non è stata altro che una “furbata” brasiliana applicata, questa volta, su larga scala e con riflessi importanti sul Diritto Internazionale e nella Diplomazia: affinché le oligarchie non dipendessero dalla manifestazione volontaria degli stranieri sulla loro volontà di naturalizzarsi brasiliani, invertirono la logica – si richiedeva una esplicita manifestazione negativa che, diciamolo, i potenti sapevano che non sarebbe stata esercitata da nessun straniero residente in Brasile dal 15/11/1889. In questo modo, se necessario, avrebbero potuto comporre le liste degli elettori, inclusi stranieri che, messe a confronto con i libri vuoti delle Camere e delle Intendenze comunali e commissariati di polizia, avrebbero confermato la condizione di elettore dello straniero, permettendo che la forza brutale dei “coronéis” – i proprietari della terra – potesse essere esercitata anche sugli stranieri installati in Brasile. Ecco il vero significato e spirito della Grande Naturalizzazione.

Così, viste le dichiarazioni negative, richieste dal Decreto 58-A, precedute all’iscrizione alle liste elettorali, ai termini dell’art. 4º del Decreto 396, la naturalizzazione tacita non poteva mai essere ammessa in presenza di un certificato negativo di iscrizione alle liste elettorali o dell’informazione, constante nei registri pubblici prodotti in Brasile, che un determinato straniero non era e mai era stato, elettore.

Anzi, il precedente Decreto 396, del Governo Provvisorio, quello del 277-D, del 22 marzo 1890, affermava ancor di più chiaramente che la qualità di cittadino naturalizzato tacitamente brasiliano non proveniva semplicemente dall’inerzia dello straniero nel dare la sua dichiarazione negativa alle autorità competenti, ma dal manifesto desiderio di esercizio del diritto al voto, ponendo al sistema creato dal governo provvisorio un atto volontario e positivo da parte dello straniero, affinché fosse affermata la sua condizione di naturalizzato; vediamo ciò:

Art. 1º Sarà considerato cittadino brasiliano a tutti gli effetti dell’art. 3 del Decreto n. 58 A, del 14 dicembre 1889, indipendentemente da qualsiasi altra formalità e inclusa l’iscrizione alle liste elettorali da parte della competente commissione, lo straniero che richiede di essere inserito in suddette liste, (…).

Per questo non si può parlare di naturalizzazione tacita di nessun straniero, residente in Brasile il 15/11/1889, nel caso in cui questi non abbia manifestato il desiderio di divenire elettore, avendo quindi richiesto il suo inserimento nelle liste. 

IV – La costituzionalizzazione della naturalizzazione tacita e il problema della prova della naturalizzazione: italiani, brasiliani o apolidi?

È ovvio che molti atti del Governo Provvisorio potrebbero essere contestati nella loro costituzionalità, tanto in relazione alla Costituzione del 1824 o, persino, alla luce della Costituzione Repubblicana in arrivo. Così, la manovra elettorale del Governo Provvisorio fu inserita nella Costituzione del 1891, seppur con effetti soggetti ad un termine definitivo, il 24/8/1891. In questo modo, l’art. 69 della Costituzione del 1891, al suo 4º comma, prevedeva che sarebbero stati cittadini brasiliani 

“gli stranieri che, trovandosi in Brasile il 15 novembre 1889, non avessero dichiarato, entro sei mesi dall’entrata in vigore della Costituzione, la volontà di conservare la nazionalità di origine”.

La prima difficoltà trovata dagli organi pubblici brasiliani aveva a che vedere con la prova di residenza. Bisogna sottolineare che il primo Codice Civile brasiliano sarebbe entrato in vigore solo il 1º/1/1917, in modo che non si può affermare che, nel 1890, vi fosse un concetto giuridico sull’istituto della residenza; vi era quindi una complicata questione da risolvere per il nuovo ordine costituzionale, sulla naturalizzazione tacita degli stranieri: come comprovare che, di fatto, questi risiedevano in Brasile il 15/11/1889?

Da un altro punto di vista, dato che il Decreto 58-A venne giustamente pubblicato per non essere rispettato, visto che quello che realmente interessava erano le iscrizioni alle liste elettorali, la quasi totalità dei Comuni non creò, e se creò non inviò al Ministero degli Affari dell’Interni (il futuro Ministero della Giustizia), i libri nei quali, in teoria, avrebbero dovuto essere registrate le dichiarazioni negative degli stranieri per il mantenimento della loro nazionalità originaria. Come comprovare, senza una prova di residenza e in presenza dell’assenza dei libri creati dal Decreto 58-A, che un determinato straniero, di fatto, si era naturalizzato brasiliano?

La manovra elettore delle oligarchie, resa possibile dal Governo Provvisorio, si trasformò in un cavallo di Troia. In verità, in assenza di un titolo in grado di comprovare la naturalizzazione, la Repubblica brasiliana diede ad alcuni stranieri senza scrupoli, in pratica, l’opportunità di usare la cittadinanza brasiliana e/o della cittadinanza originaria a proprio piacimento. Per questo motivo, la prova della naturalizzazione stimolò creazione di norme capaci di dare concretezza all’istituto; norme che andavano oltre l’esclusivo intento puramente elettorale della Grande Naturalizzazione e che, in pratica, trasformavano la naturalizzazione tacita in una modalità più soft della naturalizzazione espressa.

Il Decreto nº 904, del 1902, sanciva, al suo art. 12, che la condizione di brasiliano tacitamente naturalizzato, ai termini del comma 4º, art. 69, della Costituzione del 1891, sarebbe stata comprovata dall’invio, fino alla data di entrata in vigore del Decreto, del certificato elettorale o di atti di nomina per l’esercizio di incarichi pubblici in nome dello straniero. A sua volta, il Decreto nº 1805, del 1907, disponeva al suo art. 2º, che per la spedizione del certificato di naturalizzazione, lo straniero avrebbe dovuto essere in condizioni di comprovare la sua residenza in Brasile secondo quanto richiesto dal Decreto 58-A; oltre a ciò, lo stesso decreto centralizzava i processi di naturalizzazione della sfera dell’Unione, creando l’obbligo di richiedere, da parte del Governo Federale, rappresentato dal Ministero della Giustizia, ai Comuni ed alle autorità consolari, gli eventuali libri o dichiarazioni che contenessero le manifestazioni negative degli stranieri residenti in Brasile alla data della Proclamazione della Repubblica. Il governo brasiliano dell’epoca, in relazione ai decreti legislativi 904 e 1805, qui citati, fece un regolamento di una procedura amministrativa per la richiesta di naturalizzazione, tramite il Decreto nº 6948, del 14 maggio 1908, a carico del Ministero della Giustizia, dipendente da una richiesta dello straniero interessato e l’istruzione di una richiesta con i documenti di prova.

Così, usando la sua competenza per una legislazione sulla naturalizzazione, data dall’art. 34 della Costituzione del 1891, il Parlamento Nazionale stabilì una procedura di naturalizzazione, in capo al Ministero della Giustizia, con la quale la condizione di naturalizzazione tacita esigeva la presenza di una dichiarazione, la cui formalizzazione richiedeva: 

1) la prova da parte dello straniero di aver stabilito la residenza in Brasile fin da prima del 15/11/1889; 

2) l’esistenza di un titolo di elettore, in modo che lo straniero potesse comprovare di aver realizzato la sua iscrizione alle liste elettorali o, in alternativa, la presentazione di atti che comprovassero la sua abilitazione all’esercizio di incarichi pubblici; 

3) infine, un risultato negativo della consultazione, da parte del Ministero della Giustizia, delle dichiarazioni contenute nei libri del Decreto 58-A o negli uffici consolari, che avrebbero potuto contenere la manifestazione contraria dello straniero all’acquisizione della nazionalità brasiliana.

Sull’altro lato dell’Atlantico, la legge civile italiana, del 1865, che ancora non ammetteva espressamente, in teoria, la possibilità della doppia nazionalità per i suoi compatrioti, aveva nel suo art. 11, le seguenti ipotesi di perdita della nazionalità italiana: 

1) la rinuncia espressa dell’italiano, alla presenza di un Ufficiale di Stato Civile, con il conseguente cambio di residenza in un paese straniero; 

2) l’ottenimento della cittadinanza straniera; 

3) l’accertamento, da parte dell’italiano, senza il permesso del Regno, di lavoro pubblico straniero o, in alternativa, prestare il servizio militare a favore dello Stato straniero.

Come abbiamo visto, la naturalizzazione tacita non aveva mai affrancato, in base alle regole del Governo Provvisorio e, anche alle norme già stabilite nel regime costituzionale del 1891, una manifestazione positiva di volontà dello straniero: mentre nel regime del Governo Provvisorio, lo straniero avrebbe dovuto richiedere la sua iscrizione alle liste elettorali affinché fosse considerato tacitamente naturalizzato, dopo l’entrata in vigore della Costituzione del 1891, avrebbe dovuto farne richiesta presso il Ministero della Giustizia allegando alla pratica i documenti richiesti (prova di residenza in Brasile il 15/11/1889 insieme al titolo di elettore e/o nomina per l’esercizio di incarico pubblico). 

Ad eccezione degli italiani che, realmente, erano stati cooptati dalla smania elettorale delle oligarchie della Vecchia Repubblica ed obbligati, quindi, ad iscriversi alle liste per dare un voto predefinito dai “coronéis”, tutti gli altri hanno continuato a vivere in Brasile come italiani, astenendosi non solo dal votare ma dall’esercitare tutti i diritti relativi al pieno esercizio della cittadinanza. 

A questo punto è degna di nota l’interpretazione estesa data dalla Corte Suprema Federale al testo del Decreto 396, ammettendo la possibilità che la dichiarazione negativa prevista dal Decreto 58-A (e ripresa all’art. 69, 4º comma, della Costituzione del 1891), avrebbe potuto essere data anche agli Ufficiali del Registro Civile brasiliani, a condizione che non si riferisse solo al luogo di nascita dello straniero (come ad esempio nell’espressione “nato a”). In questo modo, l’informazione sulla nazionalità, risultante nei registri pubblici realizzati in Brasile, in cui gli stranieri giunti dall’Italia si autodichiaravano come “italiani” o come “sudditi del Regno d’Italia”, rispettava il ruolo della manifestazione negativa richiesta dal Decreto 58-A, impedendo, quindi, che tali italiani fossero inseriti nelle liste elettorali.

Corretta quindi la decisione della Corte di Napoli, del 1907, nell’interpretare di conseguenza la parola “ottenuto” del paragrafo 2, art. 11 del Codice Civile del 1865, rigettando la possibilità dell’ottenimento “tacito” della cittadinanza brasiliana. Negare in concreto, dal lato brasiliano, e in teoria, dal lato italiano, l’esercizio dei diritti di cittadinanza agli italiani emigrati sarebbe, in pratica, farli equivalere, senza dubbi, ad apolidi, in totale contrarietà alle norme internazionali che, anche all’epoca, regolavano il tema. 

V – L’inopportuna sentenza della Sezione Persona, Famiglia e Minorenni della Corte d’Appello di Roma

Così, oltre alla miseria e all’abbandono vessatori che fecero sì che i poveri italiani abbandonassero l’Europa per trovare, in America, un lavoro indegno, la frustrazione delle false promesse, il desiderio di un ritorno mai realizzato e, anche, l’assenza della condizione di cittadini, nell’interpretazione data dalla Sezione Persona, Famiglia e Minorenni all’art. 11 del Codice Civile del 1865 che ancora li poteva equiparare ad apolidi. Non può la giustizia italiana macchiare, in così grave maniera, la memoria dei nostri compianti e coraggiosi avi la cui esistenza in vita già era stata segnata dalla traumatica esperienza dell’espatrio. Questa sentenza corrisponde ad un momento molto triste della giurisprudenza italiana ed è in totale disaccordo con i fatti, il Diritto e la Storia.

Si tratta del giudizio, della Sezione Persona, Famiglia e Minorenni della Corte d’Appello di Roma, in cui la famiglia in questione ha subito il ricorso del Ministero dell’Interno, con litisconsorzio, al fine dell’appello, del Ministero degli Affari Esteri, entrambi rappresentati dall’Avvocatura Generale dello Stato. Abbiamo spiegato al lettore che non abbiamo avuto accesso alla decisione monocratica del Tribunale Orinario di Roma e nemmeno agli atti del processo originario, in modo che tutta la spiegazione che segue ha come fonte esclusivamente la sentenza in analisi.

Dopo aver affrontato – e superato – questioni preliminari come, per esempio, la legittimità del Ministero degli Affari Esteri di poter partecipare all’appello e la possibilità di riunire nuovi documenti, da parte degli appellanti, in una procedura sommaria, la Corte inizia a giudicare il merito della causa, rilevando che l’appello deve essere accolto.

La relatrice cita un tratto di un giudicato della Corte di Cassazione che, secondo quanto affermato, da ragioni per una rinnovata interpretazione dell’art. 11 del Codice Civile del 1865. Secondo la relatrice, il Codice Civile del 1865 è la norma applicabile alla specie, vista la nascita del dante causa e del figlio brasiliano essersi verificate, rispettivamente, nel 1860 e nel 1903. Nel giudizio citato è stata riaffermata la competenza statale nella disciplina dell’attribuzione della cittadinanza e in esso è citata, ‘en passant’, la possibilità dell’attribuzione della nazionalità basandosi anche sul fatto sociale di legame e solidarietà effettiva del cittadino con lo Stato in questione – principio che, nel diritto internazionale, riceve il nome di principio dell’effettività.

Non considerando l’applicazione dell’art 555/1912 al caso, la relatrice continua quindi ad un’inesatta interpretazione dell’art. 11 del Codice Civile del 1865, articolo che, come abbiamo visto, disciplinava le ipotesi di perdita della cittadinanza italiana da parte dei sudditi del Regno d’Italia. Secondo la relatrice, l’italiano in questione avrebbe perso la sua cittadinanza italiana in ragione di una condotta successiva al decreto della Grande Naturalizzazione in Brasile.

Continuando con le sue motivazioni, la relatrice squalifica totalmente il Certificato Negativo di naturalizzazione presentato dagli appellati, sostenendo che tale certificato, invece di essere un vero e proprio certificato negativo dell’avere la naturalizzazione brasiliana da parte dell’italiano, corrisponderebbe ad una semplice consultazione ad una lista di naturalizzazioni già verificatesi, quindi non potendo, il certificato, comprovare che quell’italiano, di fatto, non sia stato naturalizzato brasiliano.  Ella cita, quindi, la normativa brasiliana per affermare che, secondo questa normativa, gli italiani emigrati avrebbero potuto rinunciare alla Grande Naturalizzazione e afferma che gli appellanti non avevano presentato nessuna prova, diretta o indiretta, capace di dimostrare la rinuncia alla naturalizzazione tacita da parte del loro dante causa.

Seppur in presenza dell’assurda squalifica fatta a tale certificato – e quindi allo Stato brasiliano e agli accordi diplomatici ratificati da entrambi i paesi – è da questo punto che la sentenza prende spunto per giungere a conclusioni veramente scandalose. La relatrice giustifica la sua tesi più importante, ossia che l’italiano, presumibilmente, avrebbe potuto usufruire di tutti i diritti civili e politici concessi dal Brasile, paragonando, senza nessun tipo di prova, ad una rinuncia cosciente e volontaria, seppur implicita, alla cittadinanza italiana, concludendo che tale rinuncia sarebbe, quindi, rispondente all’art. 11, III, del Codice Civile del 1865.

Secondo l’infausta sentenza, sarebbe stato un onere di prova degli appellati dimostrare che il loro dante causa era, di fatto, una persona completamente distaccata dalla società brasiliana, senza aver fatto il servizio militare, senza aver esercitato diritti politici o un lavoro pubblico in Brasile. Sotto questo ultimo aspetto, la relatrice presenta ragioni veramente disumane affermando che l’esercizio di un impiego pubblico dovrebbe essere considerato se si esercita una qualsiasi attività di lavoro; secondo la giudice, l’esercizio di qualsiasi lavoro potrebbe essere equiparato all’esercizio di una funzione pubblica, dato che, vista la qualità dell’immigrante dell’italiano, qualsiasi lavoro da lui svolto avrebbe dovuto, ovviamente, essere autorizzato, anticipatamente, dallo Stato straniero che lo aveva ricevuto. Così, secondo la relatrice, gli immigranti italiani in Brasile non avrebbero mai potuto lavorare e se avessero voluto mantenere la loro cittadinanza originaria avrebbero dovuto restare per tutta la loro vita estranei al mondo del lavoro.

Giustificando un’interpretazione “costituzionalmente orientata”, la relatrice cita di nuovo il giudizio della Corte di Cassazione che, secondo quanto ella crede, sostiene le sue assurde ragioni, in virtù del cosiddetto principio dell’effettività, facendo un’inversione ermeneutica incredibile del contenuto di suddetto principio applicato, nel caso, al di fuori dello spazio temporale presentato alla Corte ed a svantaggio dei diritti di nazionalità richiesti dagli appellati.

Continuando, per allontanare l’irrefutabile constatazione che il figlio minore del dante causa, nato nel 1903, non poteva aver “perso” la sua cittadinanza jure sanguinis per il fatto dell’”ottenimento” jure soli della cittadinanza brasiliana, la relatrice giustifica la perdita della cittadinanza italiana del figlio dell’italiano a causa della sua integrazione nella società brasiliana avvenuta dopo la maggiore età. Interessante notare che la giudice non prende in considerazione il fatto che il figlio era ancora minorenne quando era entrata in vigore la Legge 555/1912 (il 1º/7/1912), non fornendo, anche, nessuna considerazione sull’esatto momento in cui il dante causa sarebbe stato naturalizzato – cosa che, ovviamente, avrebbe un riflesso essenziale nella trasmissione della cittadinanza italiana, jure sanguinis, al figlio nato in Brasile.

Con questo breve resoconto della sentenza, possiamo vedere che la relatrice del caso ha sovvertito il giudizio del Tribunale Ordinario di Roma, senza considerare la regolare distribuzione dell’onere di prova, squalificando svincolando prove valide fornite dagli appellati (il suddetto certificato), presumendo l’integrazione dell’italiano nella società brasiliana senza che ne sia stata presentata alcuna prova, in questo senso, dagli appellanti, interpretando in un modo inverso il principio dell’effettività e fornendo un’interpretazione totalmente contraria alla dignità dell’essere umano per il paragrafo III, dell’art. 11 del Codice Civile del 1865, interpretazione che, se fosse presa seriamente, porterebbe gli italiani residenti all’estero che caso vogliano mantenere la cittadinanza italiana, all’isolamento sociale totale e la morte per inanizione, vista l’impossibilità di esercitare, secondo le parole della giudice, qualsiasi attività di lavoro. 

Senza dubbi si tratta di una delle sentenze più assurde delle quali abbiamo avuto notizia.

VI – Smontando le ragioni della sentenza e dell’Avvocatura dello Stato. Forza probante del Certificato Negativo di Naturalizzazione

Innanzitutto bisogna sottolineare che il Certificato Negativo di Naturalizzazione – il CNN – è un documento prodotto regolarmente dal Dipartimento di Migrazioni della Segreteria Nazionale di Giustizia, organo del Ministero della Giustizia.

Come abbiamo visto nel nostro piccolo passaggio storico, il controllo delle naturalizzazioni fu centralizzato dal Ministero della Giustizia (antico Ministero degli Affari dell’Interno) in modo che, nel certificare l’inesistenza della naturalizzazione, il Ministero della Giustizia abbia come fonte i processi che si trovano nei suoi archivi. Quindi, come ha detto il giudice, non si tratta di una semplice lista di nomi.

La sentenza squalifica la giurisdizione e lo Stato brasiliano negando la veridicità delle informazioni contenute nella CNN. Si noti che gli interessati forniscono al Ministero della Giustizia, per l’emissione del certificato, tutte le variazioni di nome e cognome constanti nei registri pubblici dell’italiano – e della sua discendenza – prodotti in Brasile. 

Come detto dall’art. 17, dell’Ordinanza nº 623/2020, del Ministero della Giustizia, la CNN costituisce uno strumento giuridico per tutti i fini di diritto. Oltretutto, l’Italia è firmataria della Convenzione dell’Aia del 5 ottobre 1961, in vigore dal febbraio 1978. All’articolo 3 la Convenzione stabilisce, come unica formalità per garantire l’autenticità del documento, la competenza del firmatario del documento e, se possibile, l’autenticità del timbro nel documento, un timbro creato dalla Convenzione stessa.

Bisogna anche sottolineare l’esistenza di un accordo bilaterale tra Brasile e Italia, il “Trattato relativo alla Cooperazione Giudiziaria ed al Riconoscimento ed Esecuzione di Sentenze in Materia Civile”, del 17 ottobre 1989, sottoscritto dall’Italia (Legge 18 agosto 1993, n. 336 in Suppl. ordinario alla Gazz. Uff. del 31 agosto 1993, n. 204), in vigore dal 1º giugno 1995, obbligando entrambi gli Stati a collaborare per ottenere e inviare prove e fornire informazioni sulle leggi e i regolamenti di una o dell’altra parte. Curiosamente, il Trattato concede al Ministero della Giustizia brasiliano l’autorità rappresentativa centrale, della Repubblica Federale del Brasile, per l’adempimento delle finalità in esso contenute – e sono proprio la competenza e la serietà del Ministero della Giustizia che, nei termini della sentenza italiana, sono state messe in franca dubbiosità.

In linea con il testo del Trattato bilaterale, totalmente non considerato dal giudice, 

“i documenti pubblici così presi in considerazione da una delle parti avranno, nell’applicazione del presente trattato, la stessa forza probatoria nei confronti dell’altra parte, in base alla legislazione di questa ultima parte”. 

Per questo motivo, squalificando la CNN, la relatrice da adito a reclami, contro la sentenza, negli organi diplomatici e nei rispettivi ministeri della Giustizia di entrambi i paesi, non trattandosi di una decisione il cui effetto si limita ai richiedenti ma che può generare riflessi concreti anche nelle relazioni diplomatiche tra Brasile e Italia.  

APPLICAZIONE AL CONTRARIO DEL PRINCIPIO DELL’EFFETTIVITÀ

Come abbiamo visto, la sentenza cita una sentenza della Corte di Cassazione per preparare la tesi che, secondo la giudice, darebbe sostegno alla sua ingiusta interpretazione dell’art. 11 , III, del Codice Civile del 1865. La giudice crede che, nel caso concreto, giustificherà una “rinuncia tacita” dell’italiano (e di suo figlio, dopo la maggiore età) alla cittadinanza italiana usando il cosiddetto principio dell’effettività.

Innanzitutto va rilevato che il principio dell’effettività è un’eccezione in materia di nazionalità. La dottrina del diritto internazionale classica segue con forza che la linea che una materia “nazionale” sia interamente trattata dallo Stato in questione, per motivi collegati alla stessa sovranità dello Stato, in linea con la celebre frase di Oppenheim: 

“Non è il diritto internazionale ma il diritto interno quello che deve o non deve considerato un cittadino”. 

Del resto, questa posizione è già stata sostenuta dal Tribunale Permanente di Giustizia Internazionale. 

Il principio dell’effettività, che può essere considerato come il legame sociologico in grado di collegare un individuo ad una determinata nazione, è stato applicato come un’eccezione, per la prima volta e in una decisione non unanime, dalla Corte Internazionale di Giustizia nel caso di Friedrich Nottebohm. 

Era nato in Germania nel 1881. Nel 1905 si trasferì in Guatemala, luogo dove stabilì la sua residenza e le sue attività imprenditoriali; Nottebohm aveva fratelli ed aveva rapporti costanti con il paese dove era nato, trovandosi in Germania quando la Polonia venne invasa, nel 1939, evento che diede inizio alla II Guerra Mondiale. Iniziata la Guerra, Nottebohm chiese la sua naturalizzazione allo Stato di Lichtenstein, a causa della neutralità di questo Stato. Il Guatemala dichiarò guerra alla Germania e, nel 1943, dopo essere tornato in Guatemala, Nottebohm venne arrestato ed estradato, oltre a vedere i suoi beni espropriati da quel governo. Nel 1951, lo Stato di Lichtenstein, in cui Nottebohm si era naturalizzato espressamente, presentò una richiesta presso la Corte di Giustizia Internazionale, affinché il governo del Guatemala fosse condannato ad indennizzarlo per i danni che gli erano stati causati. 

Quando la Corte giudicò la pretesa presentata dallo Stato di Lichtenstein ed applicò il principio dell’effettività, lo fece per affermare che la naturalizzazione di Nottebohm in Lichtenstein, non poteva essere accettata dal Guatemala dato che, affinché altri Stati accettassero questa naturalizzazione, sarebbe dovuto essere necessario comprovare un reale ed effettivo legame con lo Stato concedente.

Il lettore può rapidamente comprendere come il principio dell’effettività non sia applicabile al caso della Grande Naturalizzazione in Brasile.

In primo luogo, nel caso Nottebohm è rimasto indiscutibile il suo vincolo di sangue con la Germania, paese in cui era nato; così, il principio dell’effettività era stato citato per riaffermare il vincolo di sangue di Nottebohm con la Germania – e non per allontanarne la nazionalità originaria, come equivocamente sembra aver interpretato la giudice nel caso valutato dalla Corte d’Appello di Roma. Il principio dell’effettività è stato applicato per non considerare giustamente la naturalizzazione di Nottebohm presso lo Stato di Lichtenstein – si definisce, una naturalizzazione realmente richiesta, cosciente e volontaria, insomma una naturalizzazione da lui espressa.

Nell’assurdo giudizio di Roma, la giudice ha voluto allontanare, usando il principio dell’effettività, la nazionalità originaria dell’italiano in questione. Ma, se stesse seguendo effettivamente il precedente della CIG, con ancor più ragioni della stessa CIG, ella avrebbe allontanato, contrariamente a quanto fatto, la possibilità di una naturalizzazione tacita (caso della Grande Nazionalizzazione brasiliana) – visto che il CIG, non rilevando nessun vincolo sociale di Nottebohm con il Lichtenstein, non ha considerato addirittura nemmeno una naturalizzazione fatta in modo espresso. 

In secondo luogo, la naturalizzazione di Nottebohm in Lichtenstein non fu utilizzata per eventualmente cassargli un’altra nazionalità, visto che non vi era nessuna richiesta dello Stato di Lichtenstein affinché Nottebohm fosse considerato cittadino del Guatemala; la CIG ha solo riconosciuto che non si sarebbe potuto condannare lo Stato del Guatemala a causa di una naturalizzazione che, teoricamente, era avvenuta pro forma. Nel caso della sentenza di Roma, la cittadinanza originaria, allontanata dal giudice, non avrebbe potuto essere ottenuta pro forma poiché derivava direttamente dalla legge civile italiana per il semplice fatto della nascita.

Infine, nel caso Nottebohm, la CIG ha usato il principio dell’effettività in presenza di una nazionalità derivata (naturalizzazione) sostenuta dallo stesso interessato. In nessun ambito del Diritto Internazionale o del diritto italiano si potrà trovare una sola sentenza in cui il principio dell’effettività sia stato usato per vincolare coercitivamente una determinata persona ad una nazionalità che questo individuo non abbia voluto pubblicamente, coscientemente, volontariamente ed esplicitamente come la sua. Nella sentenza di Roma, la giudice inverte completamente il senso del principio, visto che lo usa per riconoscere una nazionalità derivata – la brasiliana – mai richiesta dall’italiano in questione e che nemmeno era stata richiesta dai suoi discendenti. Anzi, andando ai limiti dell’assurdo, la relatrice sembra usare il principio dell’effettività per giustificare il supposto fatto che una rinuncia tacita dell’italiano deceduto – avo dei richiedenti -, alla sua nazionalità originaria. Si tratta dell’applicazione del principio non per confermare il vincolo di un individuo con lo Stato “x” o “y”, come da lui stesso sostenuto ma, in un modo inverso, per giustificare la perdita della nazionalità italiana originaria dell’emigrato a favore di un’altra nazionalità della quale non se ne ha nessuna prova che, un certo momento nella sua vita, abbia sostenuto come sua.  

INAPPLICABILITÀ DELLA SENTENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE N. 9377/2011 AL CASO IN ESAME

Benché la giudice usi parti di una sentenza del 2011 della Corte di Cassazione che, in teoria, darebbe qualche appoggio alle sue tesi, si è trattato di nuovo di un equivoco.

Nel giudizio della citata sentenza, la Corte di Cassazione era stata esortata a decidere su un caso in cui discendenti di un italiano chiaramente naturalizzato libanese avevano chiesto lo status civitatis italiano, sostenendo che, nella sua linea di discendenza, c’era un minorenne quando il padre italiano era stato naturalizzato libanese. I richiedenti sostenevano che il minorenne, senza capacità civile di ottenere un’altra cittadinanza e rinunciare alla cittadinanza italiana, anche in vista della naturalizzazione espressa di suo padre presso lo Stato del Libano, aveva mantenuto, quindi, la nazionalità italiana, come comprovava anche il documento di straniero di questo minore arrivato nello stato libanese.

La citazione fatta dalla giudice non si applica, in particolare per due motivi: 

(1) in primo luogo, nel caso citato c’era stata una chiara naturalizzazione dell’avo italiano su quella linea di successione, cosa che, di fatto, interrompeva la trasmissione della cittadinanza jure sanguinis – e questo, ovviamente, non è il caso del fascicolo valutato dalla relatrice della Sezione Persone, Famiglia e Minori, visto che i richiedenti hanno dimostrato, tramite la CNN, di non esservi nessuna naturalizzazione in nome dell’italiano in questione e, come tutti sappiamo, l’ipotesi della naturalizzazione tacita è rifiutata, da molti anni, dalla giurisprudenza italiana; 

(2) in secondo luogo, la sentenza della Corte di Cassazione non ha usato il principio della effettività per negare o concedere diritti di cittadinanza agli autori di tale causa – anzi, al contrario, la sentenza ha riaffermato la nazionalità come un diritto pubblico concesso in modo privativo dallo Stato. Nella sentenza erroneamente citata dalla Corte d’Appello, la Corte di Cassazione ha negato il diritto agli autori di tale causa applicando direttamente la legge pertinente (Legge 555/1912) nel caso specifico, interpretando che vi era stata la perdita della cittadinanza italiana da parte del minorenne visto che, all’epoca della naturalizzazione espressa dell’italiano nei confronti dello Stato del Libano, il principio dello iure communicatio, anch’esso applicabile, sotto la stessa normativa, l’art. 9 della Legge 555/1912, che avrebbe permesso all’allora minorenne, una volta che compisse 18 anni, riacquistare la cittadinanza italiana – cosa che ovviamente non fece.

Così, il precedente citato dalla giudice non ha nulla a che vedere con il caso da lei giudicato. 

L’ASSURDA TESI DELLA “RINUNCIA TACITA PRESUNTA”: INTERPRETAZIONE INCOSTITUZIONALE DELL’ART. 11, III, DEL CODICE CIVILE DEL 1865 E INVERSIONE DELL’ONERE DI PROVA

Siamo così giunti ad un punto dell’analisi in cui possiamo fare un’ovvia conclusione: la decisione della giudice presso la Corte d’Appello di Roma è stata una decisione pre-ordinata. È chiaro che la relatrice del caso aveva già deciso quando, a posteriori, aveva dovuto costruire le sue ragioni per decidere. Chiariremo meglio la questione al fine di capire perché la giudice ha dovuto sostenere l’assurda tesi della rinuncia tacita come fondamento della sentenza.

Al fine di negare la pretesa dei richiedenti e invertire il giudizio monocratico del Tribunale Ordinario di Roma, la relatrice avrebbe dovuto raggiungere due obiettivi: dimostrare che, per la sistematica legge applicabile al caso, 

(1) vi era l’ottenimento, da parte dell’italiano, di una cittadinanza straniera e 

(2) porre in sintonia la sua decisione con qualche sentenza precedente della Corte di Cassazione, prevenendo la discussione che avrebbe potuto seguire presso quella Corte e difendendo la sua decisione da una successiva riforma.

Solo che, per il quadro legale applicabile al caso dell’italiano emigrato, l’opzione disponibile che, ovviamente, si andava ad appoggiare alla tesi dell’Avvocatura dello Stato – la Grande Naturalizzazione -, per applicare il paragrafo secondo, dell’art. 11, del Codice Civile del 1865, sarebbe bloccata. Ma, come è noto, dal 1907, la giurisdizione d’Italia già aveva deciso che il giusto senso dell’espressione “ottenuto” del comma secondo di questo articolo del Codice non avrebbe mai potuto essere interpretata in senso tacito, perché ciò avrebbe significato che l’Italia accettasse che una legge straniera sarebbe stata capace di superare le sue stesse leggi. Benché, da un punto di vista processuale, l’antichissima decisione della Corte di Napoli possa essere superata, visto che in essa non c’è nessun effetto vincolante, continua ad essere, 114 anni dopo, estremamente scomodo superarla. Il giudice italiano che lo farà, a favore della Grande Naturalizzazione brasiliana, starà, con effetto, negando la giurisdizione italiana – e, per ovvie ragioni, nessun giudice mentalmente sano ferirebbe la giurisdizione del suo stesso Stato che incarna nella sua attività giudiziaria. Come, anche, la forza del pragmatismo forense italiano che, con buoni motivi, non crede nella tesi della Grande Naturalizzazione come un percorso per la vittoria dell’Avvocatura Generale dello Stato.

La relatrice di questo caso, quindi, non avrebbe potuto confrontare la sentenza di Napoli e negare la giurisdizione italiana dando un senso diverso alla parola “ottenuto”. Quindi, comprenda il lettore, il giudice non ha deciso il caso applicando l’art. 11, II, del Codice Civile del 1865, usando il comma III dello stesso articolo del Codice.

Il fatto è che, secondo quanto la giudice deve probabilmente aver pensato, usando il comma III, avrebbe potuto rispecchiare la sua decisione in un precedente della Corte di Cassazione – la decisione sui discendenti dell’italiano naturalizzato libanese, sopra citata. Per giustificare la perdita della cittadinanza del figlio dell’italiano, nato in Brasile nel 1903, la relatrice avrebbe usato gli stessi argomenti della Cassazione: seppur minorenne e, all’epoca, soggetto al principio del iure communicatio, la sua inerzia rispetto ad una prerogativa che la Legge 555/1912 gli dava all’art. 9º – quella di riallacciare la cittadinanza italiana dopo la maggiore età, potrebbe giustificare la rinuncia alla cittadinanza. Il problema più grande sarebbe come giustificare la naturalizzazione del padre di questo minore, ossia dall’italiano emigrato in Brasile. Se, nel caso giudicato dalla Corte di Cassazione, era indiscutibile l’evidente naturalizzazione dell’italiano emigrato in Libano, nel caso dell’italiano emigrato in Brasile, non c’era stata naturalizzazione espressa – e, come detto sopra, non sarebbe stato possibile sostenere la tesi della Grande Naturalizzazione, a pena di negare la stessa giurisdizione italiana in relazione ad una legge straniera. Come fare?

Ecco che la giudice ha preso l’assurda strada che vediamo nella sentenza: rigettare, senza motivi e contro norme vigenti internazionali, una prova regolarmente prodotta dai richiedenti (la CNN) e utilizzare non il comma II dell’art. 11 del Codice, ma usare il comma III sostenendo che, essendosi l’italiano integrato nella società brasiliana, avrebbe rinunciato tacitamente alla sua nazionalità originaria.

Per dimostrare questi motivi, la relatrice cita il fatto che l’italiano si era sposato con brasiliana, aver vissuto tutta la vita in Brasile, aver formato una famiglia, ecc.,. Assurdamente, senza che vi sia nessuna comprovazione fatta dalla parte ricorrente (l’Avvocatura) la relatrice presume che l’italiano abbia potuto godere, in Brasile, di tutti i diritti civili e politici riconosciuti, come già detto.

Invece, l’art. 11, III, del Codice Civile dice che la cittadinanza italiana si perde per colui che, senza il permesso del governo italiano, abbia accettato un lavoro pubblico o prestato servizio militare per un paese straniero. E, su questo punto, la sentenza raggiunge un enorme grado di disumanità, paragonando gli italiani emigrati in veri e propri “oggetti”, con uno status giuridico inferiore a quello degli animali, visto che, per la relatrice, come detto sopra, qualsiasi attività lavorativa avrebbe potuto essere paragonata al lavoro pubblico, vista la situazione di stranieri degli italiani in Brasile. In altre parole: mantenere la cittadinanza italiana in Brasile avrebbe significato non esercitare nessuna attività lavorativa in una situazione di alienazione e isolamento sociale totali. Secondo la relatrice, quindi, gli italiani emigrati in Brasile avrebbero dovuto morire di fame o diventare mendicanti, se avessero voluto mantenere la loro nazionalità originaria. 

Si deve notare che la relatrice ha anche commentato una deviazione funzionale, visto che il paragrafo III dell’art. 11, del Codice Civile del 1865, è stato revocato dall’art. 35 della Legge n. 23, 31 gennaio 1901. L’Italia ha riconosciuto la terribile incertezza giuridica per gli emigrati, che proviene da questa norma. Quando l’ipotesi simile di perdita della cittadinanza italiana venne prevista all’art. 8º della Legge 555/1912, si condizionò la perdita della stessa all’intimazione dell’italiano affinché abbandonasse, entro un termine stabilito dallo Stato italiano, l’occupazione pubblica o il servizio militare che stesse esercitando all’estero; così, a causa dell’assenza di una soluzione di continuità tra il Codice Civile del 1865 e la Legge 555/1912, l’applicazione del paragrafo III dell’art. 11 del Codice non era mai corrisposta all’ipotesi automatica della perdita della cittadinanza italiana e sempre dipendeva, in verità, dall’inerzia dell’italiano davanti ad un ordine del Governo italiano affinché abbandonasse, entro un certo termine, o il lavoro pubblico o il servizio militare, a seconda dei casi, che stesse esercitando presso un governo straniero. È solo dopo scaduto il termine che lo Stato italiano potrebbe dichiarare la perdita della nazionalità italiana da parte del soggetto in questione, ordinando all’Ufficiale di Stato Civile di fare le annotazioni del caso sui registri.

Ovvio che una decisione tanto forte come questa non potrà prevalere presso la Corte di Cassazione, nel caso in cui gli interessati ricorrano. La lettura data dalla relatrice all’art. 11, III, del Codice Civile è profondamente incostituzionale visto che, secondo gli artt. 2º e 3º della Costituzione Italiana, lo Stato italiano riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo e l’uguaglianza di dignità sociale tra tutti e, anche, davanti alla legge. 

Infine, ci spingiamo oltre: la relatrice crea una specie di “rinuncia tacita presunta”, ossia un vero scandalo da un punto di vista giuridico, quindi, 

(1) la rinuncia alla cittadinanza, nel diritto italiano, ha sempre richiesto una volontà espressa – in modo che non si possa presumere la perdita automatica della cittadinanza italiana per colui che si sia naturalizzato in un altro paese o stabilito la sua residenza all’estero, contrariamente a quanto deciso dalla sentenza e 

(2) non si può presumere, in nessun caso, un atto di rinuncia; anche se ammessa la forma tacita (cosa che non si ammette), essa dovrebbe essere chiaramente comprovata da documenti che comprovino condotte positive dell’italiano nell’esercizio dei diritti relativi alla cittadinanza brasiliana – e questo non sembra essere il caso degli atti, visto che i richiedenti hanno comprovato l’assenza di un titolo di naturalizzazione (e, quindi, l’assenza del godimento dei diritti di cittadinanza da parte dell’italiano) e, d’altro canto, l’Avvocatura non ha fornito nessuna prova che questo italiano ha avuto, in vita, qualsiasi diritto derivato dalla cittadinanza brasiliana, in particolare il diritto di votare e essere votato.

PROCESSO GIUDIZIARIO A ROMA E LA GRANDE NATURALIZZAZIONE

La tesi della Grande Naturalizzazione è destinata al fallimento – e non solo per l’impossibilità pratica dei giudici italiani superare l’antica giurisprudenza del 1907 o per la condizione che hanno questi stessi giudici di addentrarsi un po’ di più nella legge brasiliana dell’epoca per capire che, di fatto, la naturalizzazione in Brasile dipendeva da una procedura, a carico del Ministero della Giustizia che, infine, dichiarasse lo straniero interessato (e richiedente) un cittadino brasiliano naturalizzato. È destinata al fallimento per la capacità che hanno la schiacciante maggioranza dei richiedenti brasiliani (gli italo-discendenti) di produrre tutte le prove necessarie per dimostrare che i loro avi non hanno mai avuto nessun diritto di cittadinanza in Brasile.

Ma, visto che è stato il Ministero della Giustizia (prima chiamato Ministero degli Affari dell’Interno) l’organo responsabile della centralizzazione delle procedure amministrative di naturalizzazione, è questo l’organo competente per certificare se si è in presenza o no dell’evento di naturalizzazione di un determinato straniero. Bisogna sottolineare che, come espresso da un testo espresso dall’Ordinanza n. 623 del Ministero della Giustizia, la CNN è uno strumento legale per tutti i fini di diritto (art. 17) e anche che lo Stato italiano, secondo l’art. 11 del Trattato relativo alla Cooperazione Giudiziaria e al riconoscimento di Sentenza in Materia Civile (in Italia, Legge n. 336/1993), si è impegnato ad accettare la validità e la forza probante dei documenti pubblici brasiliani. Per questo motivo, la giurisdizione italiana non può non considerare per nessun motivo la forza probatoria di una CNN autentica.

Come detto dall’art. 2967 dell’attuale Codice Civile italiano, in presenza di un CNN da parte dei richiedenti, diviene onere del Ministero dell’Interno presentare una nuova prova per comprovare l’esistenza di una naturalizzazione o, in alternativa, dell’esercizio regolare dei diritti di cittadinanza brasiliana da parte dello straniero, capace di smontare la forza probatoria del CNN. Anzi, la presentazione della CNN, insieme ai certificati che comprovano la linea di ascendenza italiana dei richiedenti, è un atto totalmente conforme alla normativa dello stesso Ministero dell’Interno (Circolare K28) che, oltre a questi documenti, richiede in più, solo, la non rinuncia, la cui emissione è onere dell’autorità consolare, dietro richiesta dell’Ufficiale di Stato Civile del Comune di trascrizione degli atti. 

Però, per una questione meramente prudenziale, è importante che le famiglie di italo-discendenti brasiliani abbiano una raccolta di documenti straordinaria, pronta ad essere usata in Corte d’Appello, se necessario. Data la natura sommaria della procedura a Roma (art. 702 Codice di Procedura Civile), la giurisprudenza italiana contempla la possibilità della raccolta di nuovi documenti in appello. Così, presentato ricorso da parte dell’Avvocatura, è importante che i richiedenti siano muniti di certificati negativi 

(1) di chiamata alla leva militare in Brasile; 

(2) dell’iscrizione elettorale presso il TRE (Tribunale Elettorale Regionale, ndt) della regione in cui ha vissuto lo straniero e 

(3) l’assenza di aver esercitato un servizio pubblico da parte dello straniero. 

Oltre a ciò, vale la pena, al momento della rettifica dei registri dell’italiano in Brasile, comprovare presso il giudice brasiliano l’inesistenza di naturalizzazione e della condizione di elettore, richiedendo, gli interessati, che siano registrati sui verbali, nei certificati di matrimonio e morte dell’italiano, le informazioni inerenti.

In questa stessa linea di pensiero diviene di interesse primario per gli italiani regolarmente emigrati dopo il 15/11/1889, l’essere in possesso di documenti che comprovino questa immigrazione successiva. Ciò può avvenire, ad esempio, dalla presentazione di passaporti dell’epoca, certificati dell’immigrazione brasiliana (comprovando l’arrivo in Brasile in una data successiva) e persino certificati e documenti che comprovino la residenza dell’italiano in Italia in quella stessa data (anagrafe e liste militari, per esempio).

Un’altra strategia, cumulativa, è la presentazione del certificato del Comune di origine dell’italiano comprovando l’assenza di qualsiasi registro modificativo dello status civitatis presso le autorità pubbliche italiane, attestando quindi la sua condizione di cittadino italiano, visto che tanto il Codice Civile del 1865 come la Legge 555/1912 richiedevano l’annotazione degli atti di modifica dello status civitatis, presso gli Uffici di Stato Civile, come formalità essenziale per la validità e l’efficacia tanto dell’acquisizione di altra nazionalità come della rinuncia di quella italiana.

AZIONI CONCRETE, CON EFFETTO COLLETTIVO, DA PRENDERE IN BRASILE

In Brasile, alcune azioni, con effetto collettivo, devono essere prese.

Innanzitutto bisogna formalizzare una denuncia, presso il Ministero della Giustizia, relativa alla mancanza di rispetto del Trattato Bilaterale per la Cooperazione Giudiziaria tra Brasile e Italia dato che, come abbiamo visto sopra, nessuno dei due paesi firmatari può negare la validità e la forza probante di documenti considerati pubblici dall’uno o dall’altro dei paesi coinvolti nel Trattato. Si fa notare che, anche nell’ambito della giurisdizione italiana, è necessario denunciare la mancanza di rispetto del Trattato davanti all’organo competente (Ministero della Giustizia) oltre a prendere provvedimenti correttivi contro gli agenti dello Stato (avvocati e giudici) che, senza nessuna prova contraria, non considerassero regolare un documento prodotto da organi dello Stato brasiliano.

In secondo luogo, è necessario promuovere, presso il Consiglio Nazionale di Giustizia (CNJ), l’azione competente affinché siano conformati modelli di certificati che attribuiscano chiaramente i fatti che gli italo-discendenti brasiliani dovranno eventualmente comprovare presso la giustizia italiana, come ad esempio negativa di esercizio di incarichi pubblici o del servizio militare in Brasile, nel caso in cui la CNN continui ad avere la sua forza probatoria squalificata in suolo italiano. Si rileva, anzi, la difficoltà dell’esercito brasiliano ad emettere certificati negativi di servizio, cosa che, di sicuro, potrà (e dovrà) essere discussa, tanto davanti al CNJ, come un giudice federale, in sede di mandato di sicurezza, per il diritto liquido e certo che hanno i cittadini brasiliani nell’emissione di un qualsiasi certificato in la difesa dei loro interessi.

Infine, in terzo luogo, bisogna raccogliere l’appoggio dei legittimati per proporre azioni di controllo di costituzionalità in Brasile. Per affossare definitivamente la possibilità di teorie, in Italia, parlando della Grande Naturalizzazione, sarebbe imprescindibile che il STF (Corte Suprema, ndt) desse un’ interpretazione in base al Decreto 58-A o addirittura dichiarasse la sua incompatibilità con l’ordine costituzionale brasiliano che, in teoria, potrebbe essere fatto grazie ad un Reclamo di non Conformità di un Precetto Fondamentale (ADPF). Ovviamente questo sarebbe un lungo percorso, duro tanto da un punto di vista politico come giuridico; rimane comunque la certezza che continueremo a lottare, in tutte le forme possibili, affinché si possa riaffermre il nostro diritto alla nazionalità e alla memoria dei nostri compianti avi.

VII – Conclusione

Tutti gli italiani nati in Italia devono imparare qualcosa di fondamentale rispetto agli italiani nati all’estero: quello che ci muove è l’amore. Amore per i nostri nonni, genitori, figli, nipoti e fratelli; l’amore per la memoria di quelli che sono andati; l’amore per quello che l’Italia avrebbe dovuto essere per noi e non è stato. Gli italo-discendenti del Brasile si impegnano in una lotta che dura anni e che consuma migliaia di Euro solo per una ragione, che è la più grande di tutte le ragioni umane, ossia l’amore. 

Per questo è molto triste vedere che, oltre alle muraglie che sempre sono esistite all’ottenimento della nostra identità italiana – la povertà della schiacciante maggioranza dei nostri avi e l’abbandono dello Stato italiano ai loro emigrati – se ne formano sempre altre. La difficoltà di accesso ai documenti di prova, l’indisponibilità dei servizi pubblici brasiliani e italiani alla nostra causa, l’ostruzionismo dell’amministrazione pubblica italiana, in particolare dei Consolati, all’accertamento del nostro diritto…sono molti e molti ostacoli, sconfitti da tutti per l’amore per i nostri, per l’amore per l’Italia.

I miei bisnonni Tiziano Girardello e Agnese Mori hanno sempre voluto tornare in Italia. Non ce l’hanno mai fatta. A mio nonno Dante Girardello hanno lasciato questo desiderio e lui, di poca salute e poco denaro, non lo ha mai potuto realizzare. Diceva a mia madre, prima di morire prematuramente, che un giorno l’avrebbe riportata in Italia. I miei bisnonni non si sono mai dimenticati dell’Italia e non hanno mai voluto essere brasiliani, benché siano sempre stati grati al Brasile ed al suo popolo. Vissero come italiani, insegnando ai figli il dialetto parlato a Rovigo. Cercarono di portare l’Italia insieme a loro, unendosi alle colonie italiane, dove crearono figli e nipoti. Mia madre, Fatima Girardello, per esempio, conobbe mio padre in una colonia italiana, verso il 1978, a Belo Horizonte, Minas Gerais, colonia mantenuta esclusivamente dagli sforzi degli italiani emigrati e dei loro discendenti, senza nessun aiuto da parte dello Stato italiano. 

È così che la cucina, le feste e molte parole del veneto sono sempre state presenti nelle nostre vite. Se non ci integriamo più è anche perché, lo Stato italiano non ha fatto nulla o poco ha fatto per gli emigrati. E questa non è solo una realtà della mia famiglia, è di tutti gli italo-discendenti brasiliani che, soli e per proprio conto, a loro modo, passano tutto quello che possono alle generazioni seguenti, mantenendo in qualche modo la fiamma della nostra italianità. Tutte le volte in cui, nella nascita di un figlio, l’emigrato italiano si autodichiarava italiano davanti agli Ufficiali di Registro Civile in Brasile, stava riaffermando la sua nazionalità ed i legami con la madre patria; stava, nella sua astuta semplicità, facendo ereditare alla sua prole l’unica cosa che avevano da lasciare ai discendenti: la nazionalità italiana. Per questo motivo non può lo Stato italiano, nella forma della sua giurisdizione, voler cancellarci da questa memoria.

La sentenza della Corte d’Appello nega brutalmente lo status civitatis italiano ad emigrati che non hanno mai avuto la cittadinanza brasiliana. Li paragona ad apolidi! Nega loro la memoria che noi, discendenti, con sacrifici abbiamo mantenuto. Ciò non deve accadere! Non bastasse la povertà che li ha espulsi dall’Italia ed una vita di degrado ed alienazione in Brasile, la giurisdizione italiana vuole sottrarre loro anche la dignità del lavoro e del sostentamento? Non possiamo permettere che i nostri cari nonni e bisnonni vedano macchiati in questo modo il loro rimpianto modo di essere e le loro memorie fatte di tanto coraggio.

La Grande Naturalizzazione è un inganno, nato dalla smania elettorale delle oligarchie della Vecchia Repubblica e che raggiunse, concretamente, ben pochi italiani, come comprovano i registri pubblici prodotti in Brasile e gli archivi del Ministero della Giustizia, organo competente per comprovare, a fini di diritto e con forza probante nello Stato italiano, l’assenza di naturalizzazione. Si tratta di una tesi che non considera la volontà cosciente dei nostri avi di restare italiani, di mantenere le loro radici, di vedere ereditare quello che la legge italiana ci ha sempre garantito: la nostra cittadinanza. Per questo dobbiamo continuare a lottare – e lo faremo, tanto sui mezzi di informazione specializzati come nell’Amministrazione Pubblica, tanto nei Tribunali come nelle Corte Internazionali, tanto qui come dall’altro lato dell’Atlantico.

* CRISTIANO LUIZ GIRARDELLO DE BARROS – Avvocato. Laurea in Diritto e Master in Diritto presso l’Università Federale di Minas Gerais. / Advogado. Bacharel em Direito e Mestre em Direito pela Universidade Federal de Minas Gerais)

* MARIA STELLA LA MALFA – Avvocato. Diploma di Specializzazione in Professioni Legali come Post Laurea. Laurea Magistrale in Giurisprudenza. Università degli Studi di Palermo. / Advogada. Diploma de Epecialização em Profissões Jurídicas como pós-graduação. Mestre em Direito. Universidade de Palermo).


Questo articolo è stato originariamente pubblicato sul numero 167 della Rivista Insieme.