Imagem da Justiça (Temis) (Reprodução AdobeStock/Insieme)

L’articolo di oggi è dedicato alla lotta dei nostri avi – e alla nostra lotta – per il diritto alla nazionalità italiana. Saluto i nostri lettori e ricordo a tutti che, quando la presente edizione verrà pubblicata, saremo a pochi giorni da quello che abbiamo chiamato “il giudizio del secolo” per la cittadinanza: il 12/7, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione terranno un’importante udienza e daranno inizio ad un giudizio che formerà importanti istituti giuridici relativi alla cittadinanza italiana, in particolare quelli della naturalizzazione e della rinuncia.

Quando le prime decisioni della Corte d’Appello (Sezione Famiglia) sono state pubblicate, tutti credevamo che la I Sezione Civile (competente a giudicare le nostre cause) ci avrebbe reso giustizia immediata: però, anche a quel livello siamo stati colti di sorpresa negativamente al constatare che almeno uno dei collegi giudicanti (con a capo la giudice Mariarosaria Budetta) è stato contrario alla nostra tesi, indicando una Corte divisa giurisprudenzialmente, in cui ci sono tanto giudici favorevoli come contrari.

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L’unione di studiosi e avvocati – attenta e seguita da Insieme – è stata ed è fondamentale per l’apertura di vari fronti di lotta, tanto in senso giuridico, come accademico. È in questa coraggiosa rivista che per primo è stato pubblicato un ampio studio sulla Grande Naturalizzazione in Brasile, del quale, con orgoglio, ne sono stato l’autore. Abbiamo unito gli sforzi io, Claudia Antonini, Silvia Contestabile, Andrea de Marchi, Giovanni Bonato, Daniel Taddone e Maria Stela La Malfa per produrre articoli, pareri, azioni politiche e dirette su internet, sempre alla ricerca di raggiungere la verità dei fatti storici e la miglior interpretazione del Diritto applicabile alla fattispecie.

Un anno di grandi battaglie è trascorso, i cui risultati si definiranno nel presente mese – è tempo di fede, sostegno, preghiere e ancor più lotta (che non deve mai fermarsi).

In questo articolo, abbiamo deciso di riaffermare, 115 anni dopo, il giudizio che per primo ha solidificato una giurisprudenza sullo status civitatis di italiani, forzatamente naturalizzati in Brasile: la decisione della Corte di Cassazione di Napoli, del 5 ottobre 1907.

È ben noto che i giudici del Tribunale Ordinario di Roma (XVIII Sezione) si attengono in modo univoco e universale su questo giudizio per sostenere la tesi della Grande Naturalizzazione, negata ai discendenti dal Ministero dell’Interno (dietro la rappresentanza dell’Avvocatura dello Stato). Senza fare ulteriori considerazioni sull’antica giurisprudenza, i giudici monocratici del Tribunale si appellano più volte all’interpretazione che l’estinta Corte Partenopea ha dato alla parola “ottenuto”, presente al secondo inciso dell’art. 11 del Codice Civile del 1865 – testo che regolò la materia tra il 1865 e il 1912, quando, allora, venne promulgata la Legge 555/1912, in vigore fino al 1991. Per i giudici romani – così come per la Corte di Napoli – il senso della parola porta implicito un atto di volontà espressa del cittadino italiano naturalizzato in paese straniero: e da questo atto di volontà – e non dalla naturalizzazione in se stessa – l’effetto legale previsto nel caput dell’art. 11, qualunque sia, la perdita della cittadinanza italiana.

Affrontando le decisioni dei giudici del Tribunale in appello, l’Avvocatura dello Stato denuncia, in merito all’uso semplificato della giurisprudenza di Napoli, mancanza di motivazione, violazione della legge o inesatta applicazione della legge ai casi concreti. Secondo quanto sostengono, il giudizio del 1907, se correttamente interpretato, porterebbe alla conclusione che, ancora all’epoca, i giudici consideravano il diritto alla nazionalità un qualcosa a cui si poteva rinunciare tacitamente, partendo dall’analisi più attenta del comportamento dell’italiano in relazione alla sua “nazionalità” ottenuta all’estero.

Come dice l’Avvocatura dello Stato, la decisione del giudizio a quo era stata cassata a causa di una nullità relativa alla mancanza di motivazione: nel caso specifico giudicato nel 1907, si era deciso che da una semplice iscrizione in una lista elettorale nel paese straniero (nel caso il Brasile) non si poteva presumere la rinuncia dell’italiano alla cittadinanza originaria; quindi, la Corte Partenopea avrebbe cassato la precedente decisione perché il giudizio a quo non avrebbe esaminato il valore dell’esercizio dell’elettorato in Brasile, relativamente alla questione della perdita della cittadinanza italiana. L’Avvocatura, in questo particolare caso, ha totalmente ragione – anche perché sta solo descrivendo la sentenza della Corte di Napoli e portando elementi del caso concreto che danno una luce su detta decisione. In effetti, il cuore della controversia giudicata dalla Corte Partenopea nel 1907 trattava sul fatto se si potesse considerare perdita della nazionalità italiana per il semplice fatto che l’italiano constasse in una lista elettorale prodotta da un comune brasiliano, in contrasto con l’esistenza di una legge brasiliana di una naturalizzazione di massa che coinvolgeva involontariamente gli immigranti residenti in Brasile, fin dal 1889 che, nel termine della Costituzione del 1891, non avessero dichiarato la loro intenzione di mantenere la cittadinanza originaria. Ora, come sostiene l’Avvocatura, dal 1907 non è una novità il fatto che una legge straniera non può derogare una legge nazionale – punto esplicitamente trattato dalla decisione della Corte di Napoli; ma, la questione è se, dal comportamento dell’italiano emigrato, si possa arrivare (o no) alla la perdita della cittadinanza.

Il “salto di qualità” è nello scoprire su quali comportamenti la Corte Partenopea si riferiva nel giudizio del 1907. In particolare, l’Avvocatura si gioca le sue carte: come sostiene lo Stato italiano, si tratta di comportamenti indefiniti, tra i quali l’iscrizione in una lista elettorale ne sarebbe solo un esempio. La malizia dell’Avvocatura è: indurre la Giustizia italiana a concludere che la Corte di Napoli era in linea con il principio dell’effettività della cittadinanza – dichiarato, in verità, molti anni dopo, nel 1955, dalla Corte Internazionale di Giustizia, nel giudizio del paradigmatico caso Nottebohm (Lichtenstein vs. Guatemala). Così, secondo la deviata interpretazione dell’Avvocatura, spetterebbe ai giudici italiani, in presenza dei casi concreti che fossero loro presentati, giudicare se comportamenti indefiniti dei richiedenti la cittadinanza (e degli avi emigrati, ovviamente) indicherebbero o per un effettivo e perenne legame con la Madre Patria o un legame effettivo con il paese straniero – nel caso in cui, tacitamente, l’italiano (e suoi discendenti) avrebbe perso la cittadinanza italiana.

Tornando al punto centrale: insomma, su quale comportamento la Corte di Napoli si riferiva nell’annullamento del giudizio del Tribunale di origine, considerando insuffiecente che l’italiano in questione si trovasse in una lista elettorale in Brasile? Qui, si uniscono i tempi ed i secoli… Dobbiamo andare indietro 115 anni, per aggiornare, nel presente, un giudizio che è ancora vivo e pienamente operante, come si vedrà di seguito.

Benché sia umile (e non stia volendo dare alcun demerito a colleghi che si sono impegnati tanto quanto me per la ricerca di questa verità storica), non posso far finta di falsa modestia: sono stato il responsabile di unire i tempi e completare il senso di questo importante giudizio. La Corte Partenopea si riferiva esattamente a quello che è stato prodotto dei miei studi (pubblicati in particolare da Insieme sulla Grande Naturalizzazione e spiegati nella diretta che abbiamo fatto con la mediazione del giornalista Desiderio Peron): bisognava sapere se l’iscrizione elettorale di quell’italiano era stata volontaria o non volontaria – e solo questo. Come detto in altri momenti, il Decreto 58-A, del 1889, non può mai essere interpretato in una maniera isolata: succede che, pochi mesi dopo la sua pubblicazione, venne autorizzata dal Governo Provvisorio del Brasile l’iscrizione elettorale automatica di tutti gli immigranti (Decreto 277-E, del 22 marzo 1890), indipendentemente se avessero fatto o no le dichiarazioni previste nel decreto della Grande Naturalizzazione (Decreto 480, del 13 giugno 1890 – curiosamente completando 132 anni proprio nel momento in cui scrivo il presente articolo. Vediamo il testo del Decreto 480:

Art. 1° Le commissioni comunali di iscrizione alle liste elettorali che, nei termini previsti per i rispettivi lavori, non potessero procedere al confronto determinato nella 2ª parte dell’art. 1º del decreto n. 277 e, del 22 marzo scorso, delle liste degli stranieri qualificati elettori dalle commissioni distrettuali con i libri di dichiarazioni di coloro che non aderiscono alla nazionalità brasiliana, includeranno nell’iscrizione generale di cui tratta l’art. 43 del regolamento annesso al decreto n. 200 l’8 febbraio precedente tutti i nomi delle stesse liste.

Ciò, però, non ha l’importanza di riconoscimento della qualità di cittadino brasiliano, che verrà attribuita solo agli stranieri che avranno richiesto l’iscrizione (decreto n. 277 D del 22 marzo, art. 1) ed a coloro che, dopo essere stati iscritti per decisione propria delle commissioni, indipendentemente dalla domanda, richiedere la consegna del titolo di elettore.

Così era assolutamente corretto il punto di vista della Corte di Napoli – ma non per le equivoche inferenze fatte dall’Avvocatura dello Stato su una pretesa naturalizzazione di massa o rinuncia tacita, sulla scia di un’anacronistica applicazione del principio dell’effettività. La Corte di Napoli ha deciso di cassare la sentenza ai quo perché, giustamente, capì che nemmeno la presenza del nome dell’italiano in una lista elettorale (che avrebbe potuto essere inclusa in un modo automatico) sarebbe stato sufficiente per concludere per la perdita della sua cittadinanza: bisognava sapere se questa inclusione era volontaria, ossia preceduta da una richiesta fatta dallo stesso italiano. Con i nostri lettori, le parole esatte della Corte Partenopea:

“si è iscritto, poteva denotare tanto che la iscrizione fosse avvenuta per fattane dal cittadino, come di ufficio per atto dell’autorità pubblica. (…) Era in dubbia interpretazione la frase: si è iscritto? Ebbene giustizia esigeva che il significato vero fosse stato chiarito con l’esibizione e con l’esame delle disposizione legislative brasiliane in materia elettorale e con lo studio della relativa procedura.”

In sintesi, la Corte di Napoli cassò la sentenza impugnata affinché il Tribunale a quo potesse studiare la legge brasiliana dell’epoca al fine di definire meglio il significato giuridico dell’iscrizione dell’emigrato in una lista elettorale brasiliana, in relazione all’istituto della perdita della cittadinanza italiana. Questo italiano avrebbe, effettivamente, perso la cittadinanza italiana per il semplice fatto che il suo nome figurasse in una lista di elettori di un comune brasiliano? Studiando la legge brasiliana dell’epoca – come dice la sentenza del 1907 – abbiamo la risposta: NO. Sarebbe necessario aver prova di un atto volontario dell’italiano, o da lui stesso fatta una richiesta di iscrizione al servizio elettorale o, se ad una lista iscritto dalla commissione, lui stesso avesse richiesto la tessera elettorale. Solo così si potrebbe affermare che l’iscrizione come elettore sarebbe stata considerata vincolante per la perdita della cittadinanza originaria, ai termini dell’art. 11, 2, del Codice Civile del 1865: questo è il vero senso della sentenza del 1907 – e non secondo l’interpretazione fuorviante proposta dall’Avvocatura dello Stato.

Seppur in presenza di quanto detto, sappiamo che la tesi dell’Avvocatura ha fatto i suoi danni: giudici della Sezione Famiglia e della I Sezione Civile hanno considerato azioni indeterminate (e presunte) degli immigranti italiani per giustificare le tesi relative a forme tacite di rinuncia (e quindi di perdita) della cittadinanza. Essersi sposati, aver abitato, lavorato ed aver avuto i loro figli in Brasile sono stati considerati comportamenti sufficienti per l’interruzione della linea di trasmissione; più recentemente, persino la nazionalità dichiarata davanti agli ufficiali di Registro Civile in Brasile è stata usata come causa sufficiente da indicare, in linea con il principio dell’effettività, per la rinuncia di italiani (e discendenti) alla nazionalità italiana. Abbiamo già avuto l’opportunità di commentare, in molte altre pubblicazioni di Insieme, in un modo molto dettagliato, tutte queste “ragioni”.

È vero che i giudici del Tribunale Ordinario di Roma sono stati parchi nelle loro sentenze, citando espressamente ed esclusivamente il tratto del giudizio del 1907 che fa riferimento alla volontarietà implicita che consta nella parola “ottenuto” dell’art. 11 del Codice Civile del 1865 – ma, contrariamente a quanto sostiene l’Avvocatura, ciò non significa, in nessun modo, mancanza di motivazione delle decisioni o applicazione sbagliata delle leggi pertinenti. Sia per il fatto di una naturalizzazione, sia per rinuncia, un atto di volontà inequivocabile da parte degli immigranti è sempre stato considerato indispensabile: è questo il senso più ampio e deciso della sentenza della Corte Partenopea, tanto attuale come se fosse stata emanata ieri.

Vogliamo – e abbiamo fiducia in ciò – che la Corte di Cassazione, dal 12/7, potrà, infine, rimettere le cose a posto, dando un’interpretazione conforme agli istituti legali applicabili alle nostre richieste e togliendo, dallo scenario giudiziario, una volta per tutte, decisioni che contraddicono lo spirito delle leggi, la loro corretta interpretazione, la nostra lotta e quella dei nostri avi.

Concludo questo articolo chiedendo giustizia per tutti noi e per tutti i nostri. Sono nel sostegno e nella lotta: e spero sinceramente che questo sia l’animo di tutta la nostra comunità!

Nel prossimo numero, cari lettori, o ci ritroveremo festanti o in lacrime…

Mi auguro che si realizzi la prima delle opzioni! Vi attendo ad agosto – e spero che potremo festeggiare tutti insieme! Buona fortuna a tutti noi e che gli eventi illuminino i giudici della Cassazione! A presto! ☑